mercoledì 29 aprile 2009

Tempi lunghi


Ritrovare questo libro, uscito nel 2005 senza che alcuno se ne accorgesse, certo non sconvolge le certezze letterarie di nessuno ma sicuramente mette il lettore di fronte ad alcuni pensieri.
Perché la storia che vi è narrata ha qualcosa da dirci.
Ovvero che è pur sempre una questione di modelli e di come questi si adattano al mondo che intendono rappresentare. Prima ancora di cominciare qualsiasi “attività formativa genitoriale”, prima insomma di prendere in mano un qualche testo sacro, sia esso un agile manuale o un seriosissimo trattato di psicopedagogia, i modelli coi quali ci confrontiamo (e valga per le donne così come per gli uomini) sono quelli che abbiamo conosciuto: i nostri.

Certo, visto l’andazzo di declino, ormai storicamente ben definito, forse noi babbi ci meriteremmo qualcosa di un po' meno duro e impietoso (da queste parti si usa dire “agli storpi, grucciate”) ma, va detto, Mottinelli non indietreggia di un millimetro nel raccontarci la vicenda di una lacerazione terrificante (quasi un evento contronatura, se si potesse usare questa espressione), quella della morte di un figlio, in questo caso Andrea.
E la sua prima diretta conseguenza: la fuga (la scomparsa, il sottrarsi al dolore? alla responsabilità successiva che ne deriva?) del padre, Roberto.
Poi, la seconda conseguenza: quella che trasforma il fratello minore, Mauro, in “semplice” fratello unico, in un sopravvissuto suo malgrado che si ritrova sopravvissuto nel nulla. E senza padre pure.
Infine, anche le conseguenze tornano da dove sono nate, per realizzare le storie che ci stanno dietro: Mauro, il figlio che ha fatto a meno di suo padre, diventerà babbo a sua volta. E qui, a pagine chiuse, si intravede un’altra storia. Un'altra lacerazione, ereditata stavolta e non vissuta in prima persona.

Non è però sullo svolgersi del racconto che mi interessa soffermarmi, quanto sul contributo che questo romanzo ha portato al mio orizzonte, alla mia ricerca letteraria e narrativa intorno alla figura (allo stereotipo, direi) del padre.
Romanzo che ha saputo donarmi squarci di riflessione non da poco. Che mi ha fatto vedere, direttamente, la sindrome dell'abbandono paterno, tentando una ricognizione dei sentimenti, della vertigine, dell’assoluto rancore, dell’incomprensibilità di tale abbandono.
Un libro che mette in scena il dramma completo e contagioso (sulle vite di chi resta, nell'abbandono) della mancanza di figure di riferimento. Insomma una riflessione che trova posto tra le parole, nella storia che si srotola come un gomitolo. Quasi a segnare un percorso che porta dentro il cuore del labirinto: l'amore paterno e quel che vuol dire. Perderlo.
Un tassello che non avevo nel mio puzzle e che ho messo al suo posto. Magari accanto ad altri meglio riusciti. Ma il posto delle cose non è nella compiutezza e nel valore letterari (non solo almeno), ma nelle emozioni della lettura, semplicemente.

Riassumo tutto in poche righe prese da pagina 155, è Mauro che confessa:
E' stato questo il mio imprinting di padre: mio figlio mi ha soggiogato fin dai primi istanti e davanti a lui mi sono sempre sentito un po' a disagio, come dovessi costantemente dimostrargli di essere all'altezza.

In effetti, qui avevo promesso che ne avrei parlato. E' passato parecchio tempo.
Evidentemente i bisogni si sedimentano in noi, in me, con tempi lunghi, distesi.
Oggi ho saldato il debito.
Per chi se lo ricordava.

2 commenti:

  1. non so cosa sia la perdita dell'amore paterno e la sua assenza. in questo mio padre mi ha fornito in abbondanza, offrendomi una base sicura.
    però mi ritrovo nel tentativo di rinsaldare i pezzi del puzzle, che accade spesso imprevedibilmente ....

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  2. ciao monica, in realtà io NON mi riconosco nella storia del libro. Anch'io ho avuto la mia grossa base di amore paterno. Il libro mi ha semplicemente posto di fronte ad una riflessione piuttosto importante che mi porta altrove, sui sentieri del "come" esprimere il proprio sentire verso i figli. ciao

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