giovedì 19 agosto 2010

Notte al rifugio Vajolet

Dopo l'alba sul mare, quest'estate ci concediamo tutto: una notte in rifugio sulle Dolomiti. Sotto le torri del Vajolet.
Uno spettacolo...

domenica 15 agosto 2010

Nova Levante

E’ una sensazione che provi soltanto una volta l’anno, quella di sovrastare qualcosa pur sentendoti piccolissimo. Non è come stare in un condominio di città dal quale vedi sotto di te la strada asfaltata e, se sei più su di un quarto o quinto piano, hai persino una vaga sensazione di vertigine. Del tutto artificiale.
Sei su un balcone che aggetta parecchio e sotto di te, ma laggiù piuttosto lontana (e sei soltanto ad un secondo piano), a digradare ulteriormente metro dopo metro, si distende la valle di un verde talmente intenso da sembrare sciroppo di menta in un bicchiere: un taglio profondo e stretto tra due file di colli neanche troppo elevati, che corrono di fronte e dietro di te. La sua forma è quella di una “V” (ma con le pareti molto più alte…) e piega così tanto mentre sale verso te che se anche ti sporgi parecchio dalla balaustra in legno del balcone non riesci a vederne l’inizio, laggiù dalla strada di fondovalle. Ti sporgi e la valle piega, e tu ti sporgi ancora così devi accontentarti di vederla scomparire dietro l’angolo dell’enorme cornicione di abete massiccio chiarissimo.
Ma tutto ciò accade semplicemente a Ponente, in una forma che, come abbiamo detto, resta un mistero giacché non si può guardare direttamente la valle ma soltanto intuirla laggiù, oltre il cornicione di massiccio chiarissimo abete.
Volgendo invece lo sguardo, ecco là Levante che ti si schiude (ma è già aperta) davanti agli occhi. Perché tu sei quassù, su questo poggio comodo e sovrastante, e le casine tutte bianche e marroni (metà muratura e metà legno e tetto) sono in fila perfetta, come militari che aspettano l’ispezione. Le vie, lo spazio tra esse, ormai le hai già perfettamente nella memoria: scendendo in una semi-tortuosa strada provinciale ecco che le sparse case cominciano un po’ alla volta ad aggrumarsi e il paese, d’incanto, appare. La prima piazzetta (dopo la sequela di gast-haus, pension e hof), a sinistra, ha un mini-supermercato e la chiesa ma, quello che più conta, un fantastico piccolo negozio di fornaio con i bretzel più buoni che tu abbia mai mangiato in vita tua. Così buoni che, mentre continui a percorrere mentalmente la strada, la tua memoria è occupata quasi per intero dal ricordo sublime di quella bontà e così rischi di perderti qualcosa.
Invece: subito dopo la piazzetta del fornaio, sulla destra c’è una banca. Anche se stavi quasi dimenticando di citare che poco prima, sempre sulla destra, c’erano il municipio e, ancora un po’ più a monte, una scuola e la sua splendida biblioteca (anche pubblica), tutta in assi di legno e vetro.
Continuando a scendere è un po’ come un vortice perché stai dirigendoti verso il centro e lì la corrente comincia a farsi più forte. Nell’ordine: a sinistra un’affittacamere, un’altra banca, il rinomato (ma deludente) ristorante Pardeller, una infilata di finestre di vari uffici e il marciapiede pedonale che ti permette di bypassare un insidioso incrocio col suo “stop”; a destra un negozio di scarpe, un outlet di articoli sportivi aperto non più di due ore al giorno, un salone di bellezza (forse con annessa parrucchieria?) e il bar “Panorama” che da’ direttamente sulla parete della casa di fronte e sul medesimo incrocio insidioso (e peraltro unico del paese) per cui non si capisce proprio a quale panorama voglia far riferimento quel nome. Improbabile.
Se avanzi ancora con la memoria (perché tu sei su questo poggio sovrastante) ecco che ti viene incontro il downtown: una pizzeria-ristorante non affatto rinomata e quindi molto meno deludente di Pardeller, una macelleria che esiste (dice la scritta sul muro) dal ‘700, un emporione travestito da negozio di artigianato locale che vende qualunque cosa (cartoline, maglioni, cucchiaini di peltro, carte dei sentieri, aberranti oggetti in legno da appendersi in casa, calzettoni, apribottiglie, candele) e nulla che sia neanche lontanamente stato fatto da mani artigiane, l’ufficio dell’APT, un altro negozio di fornaio (i bretzel non sono così buoni come quelli del fornaio più sopra), un supermarket con prezzi da gioielleria. In fondo in fondo, semi-nascosta dietro alcuni posti macchina perennemente occupati, c’è persino una lavanderia: qui finisce il paese. Oltre, esiste solo una strada che porta ai passi (Costalunga, Nigra) e al lago di Carezza.
Infine, volendo, puoi alzare lo sguardo sopra i tetti e dietro i colli neanche troppo elevati (quelli coperti per intero da abeti e larici di un verde impossibile) ed ecco qui di fronte il Latemar calcareo e laggiù in fondo, a chiudere la vista verso est, il Catinaccio color delle rose al tramonto. Pezzi di roccia che non puoi comprare, che resterebbero lì al loro posto anche se non ci fosse nessuno a guardarli a bocca aperta, che fanno di te il minuscolo spettatore di una bellezza senza motivo. Perché così sono questi monti: straordinariamente belli e affascinanti, pieni di scorci e leggende nascoste in ogni angolo, anfiteatro naturale per il tuo piacere, il pieno dei tuoi occhi. E l’anima del turista, come per l'ennesima magia, scompare.

venerdì 13 agosto 2010

Acchiappanuvole


In un giorno così sofisticato, pieno di riverberi biancastri appallottolati insieme all'umido che vien su da valle, c'è un'unica soluzione possibile: imbattersi in un acchiappanuvole professionista, uno che abbia l'arnese giusto per catturare la tua attenzione, svaporata assieme al meteo.
Così mi immagino una Bolzano di inizio-ma-non-troppo Novecento (diciamo subito dopo la Grande Guerra), anni di Déco, Bauhaus, primo razionalismo, nella quale qualche carrozza percorre le vie porticate o approda in Piazza Walther per la funzione serale.
In questo via-vai, un loden scuro si aggira silenzioso ai lati del selciato, un cappotto di lana impermeabile che contiene il nostro acchiappanuvole: Karl Felix Wolff. Quarantenne un po' sghimbescio e tanto miope, Wolff è colui che, con lavoro da instancabile passeggiatore, ricostruisce le antiche leggende dolomitiche estraendole, come metallo da miniera, dai ricordi appannati di pastori, preti, vecchiette, contadini. Questo tizio, abbastanza cerimonioso ed intelligente da vincere le ritrosie di così tanti montanari di ogni valle, succhia parole e personaggi anche a brandelli, una strofa qua, un frammento là, e li ricuce uno ad uno con grande precisione e rispetto: butterà via infatti tutto quello che non trova congruente. Le parti che non si legano a nessun'altra finiranno nella spazzatura della memoria. Così facendo, il suo lavoro si rivela prezioso ed esattissimo; egli salva solo ciò che i riscontri di tante voci gli danno per certo: il re Laurino, la principessa della Luna in onore della quale viene tessuta un'immensa coltre argentea per coprire i monti e renderli "pallidi", la sirenetta Ondina, le rose che tingono del loro colore il Catinaccio (Rosengarten, appunto, in tedesco) al tramonto, sono tutti parte dell'antico retaggio orale di questi luoghi.
Splendide storie, magiche presenze che aleggiano nell'aria in giorni in cui persino le nuvole sembrano divertirsi a danzare davanti agli occhi del turista rapito. La magia dei monti pallidi passa anche dai suoi racconti...

giovedì 12 agosto 2010

Artigiani della convivenza

Te le vedi venire incontro da lontano, su quei terrazzamenti che quasi ti si offrono, nel sole o nella pioggia poco cambia perché sono nettissimi comunque, i colori. Sembrano proprio una nebbia che sale diretta dalla terra, una foschia fatata che sfrangia la luce e ti colpiscono sempre, te turista distratto da altri punti focali, perché in realtà sono dappertutto e non volerle guardare sarebbe uno sforzo.
E’ delle reti di protezione dei meleti che sto parlando, di quelle sottili ali che coprono gli alberi per salvaguardare le preziose golden dai danni (estetici, perlopiù) delle copiose grandinate estive. Se le prime volte che mi è capitato di vederle mi hanno lasciato senza parole, oggi che ormai le conosco ho capito lo spirito che le sottende.
Questo mi piace, oltre tutto il resto, di questa terra e della sua gente: la capacità tutta artigianale e di un profondo ingegno (mi vien da riassumere in una sola parola, operosità) di far fronte alla natura quando è avversa. La grandine potrebbe rovinare le nostre splendide mele? Ebbene, non è inevitabile la grandine, non è un’imprevedibile fenomeno atmosferico, no. Noi riusciremo a venirne a capo, troveremo il modo di domarla e renderla inoffensiva. Questo pensano gli imprenditori agricoli di queste parti e questo fanno. La distanza tra idea e realizzazione si abbrevia molto, quassù, fino a toccarsi e sconfinare una dentro l’altra: qui il fenomeno atmosferico non è una punizione divina da scongiurare ma ci si organizza per limitarne la portata, i danni. La secolare abitudine di convivere con gli elementi: la montagna e la sua potenza immane, la campagna da far fruttare al meglio. Organizzarsi per rendere possibile la convivenza stessa.
E se è cosa normale trovare un impianto di depurazione sul ciglio di una importante e trafficatissima strada, quindi sotto gli occhi di tutti (“non abbiamo niente da nascondere” è chiaramente il sottotesto), è altrettanto banale che si sia affrontato un argomento così impervio come la neutralizzazione della grandine e lo si sia risolto. Perdonatemi l’ingenuità letteraria, ma io li vedo quegli uomini seduti attorno a un tavolo discutere sul “cosa fare” per salvaguardare le mele e “su come farlo”. Li vedo, con un foglio di carta di fronte e una matita in mano, tirare giù schizzi di progetti possibili. Una sorta di leonardismo del quotidiano: non sarà il proto-elicottero del genio di Vinci ma pensare di coprire ettari ed ettari di frutteto con altrettanti ettari di protezioni retate a maglie strettissime ha un che di titanico e di casalingo allo stesso tempo. Profuma di impresa e di strudel, di ingegno.
Conosco la gente di qui come persone di un’onestà, umana ed intellettuale, fuori dal comune, con un senso di civismo e di comunità che fa davvero impressione. Il senso della condivisione è fortissimo e sembra che non ci sia nulla di più importante dell’efficienza della loro vita quotidiana: se tutti fanno il loro dovere al meglio (esempio banale: se tutti pagano le tasse che devono), avremo un’esistenza più agevole di quella che potremmo garantirci individualmente.
Certo, molte sono le contraddizioni, le spinte contrapposte, i rovesci della medaglia. Ad un forte senso di comunità corrisponde una certa chiusura, una difficoltà ad aprirsi; il conservatorismo totale (e politico) è spesso il risultato finale della grande attenzione e gelosia verso le proprie tradizioni, gli usi e costumi, fin quasi a rasentare la paura per ciò che è diverso e non puro: negli anni ’30 e ’40 era facile vedere per queste valli, durante i cortei che salivano agli alpeggi, comparire tra le mani dei malgari stendardi con l’infame croce uncinata dei nazisti oppure, ancora oggi, se interrogati su un fantascientifico conflitto armato tra Sudtirolo e resto d’Italia, ti rispondono senza alcuna esitazione che saprebbero “da che parte voltare il fucile”.
Contraddizioni profonde che hanno radici contorte e storicamente fondate (da ultimo, lo Stato italiano visto come usurpatore dell’appartenenza tedesca o, quantomeno, austriaca) che fanno ancora di queste terre non soltanto il luna park del turismo consapevole e di (altissima) qualità ma anche il curioso e affascinante ritratto di una società civilissima e, sinceramente, per moltissimi aspetti, invidiabile.

martedì 10 agosto 2010

Al rifugio

La salita è un accumulo di passi, un leva-e-metti continuo delle tue suole in vibram. Metro dopo metro ti avvicini a quella meta decisa a colazione tra fette biscottate con marmellata di more e il latte giallo di grasso perché appena munto. E la meta, vista l’ora (il calcolo, quando anche del tutto casuale, torna sempre sul tempo del pranzo), non può essere che un rifugio: uno di quei tavoloni dove la tua passeggiata, lo sforzo immane per cui ti sei trascinato fin qui, si acquieta dentro un piatto di canederli in brodo, di polenta coi finferli, di yogurt bianco coi frutti di bosco. Questo ti basta: che tutto ci sia. La tua sicurezza è quello scambio certo: cibo e magari anche un caffè, alla fine.
La meta agognata ha però un dietro le quinte: basta entrarci, dentro un rifugio, mentre la torma prende d’assalto ogni tavolo, ogni centimetro delle panche di legno per capire cosa ci sia dietro la tua presenza in quel luogo. Vederla, la cucina di un rifugio alpino, è a mio avviso quanto di più vicino ad un alveare in piena attività: li vedi schizzare in ogni dove gli addetti al tuo cibo anzi, piuttosto, li senti perché è tutto un rincorrersi di “attenzione – achtung – permesso” mentre li vedi che ti evitano slalomando come d’inverno tra i paletti. Persino quel minimo di organizzazione rappresentata da una cassa computerizzata (che qualche addetto guarda ancora con malcelata diffidenza…) o dal modo cronologico di disporre le ordinazioni per rispettare il turno di ogni avventore vanno presto in crisi, basta chiedere un caffè al banco e tutto crolla.
Non sono pensati per migliaia di visitatori al giorno, questi luoghi. Non per nulla chi se lo inventò il rapporto uomo-montagna lo vedeva come una lotta (la lotta con l’alpe), un corpo a corpo che è, per antonomasia, individuale. Troppo rumore, persino gli elicotteri si intromettono su un sentiero che appare deserto.
Per questo, secondo me, è così difficile strappare un sorriso sincero, da queste parti. Spesso una certa qual gentilezza di modi fa parte del contratto turistico ma capisci quanta diffidenza (e quanta fatica) ci sia dietro. E non è, badate bene, soltanto una questione di denaro, di gentilezza in cambio di turismo. No, è qualcosa di più profondo, di più significativo.
Intanto, e lo so personalmente, è davvero pesante lavorare e far fatica dove gli altri si divertono. Al sorriso disteso del turista spensierato è difficile contrapporre altrettanto quando sudi e sbuffi per accontentarlo, per fargli godere quella spensieratezza. A volte, invece, quella spensieratezza si accompagna a cafonaggine e pretenziosità e allora è ancora più difficile.
Questa terra è troppo forte per poter essere trasparente nella vita di chi ci è nato. O se ne vanno oppure, se restano, stringono un rapporto intensissimo, e anche un po’ esclusivo, coi loro luoghi. Contemporaneamente sanno che il loro benessere deriva da queste frotte di cittadini culo-pesanti che, col fiato grosso alla prima curva, non potranno mai essere dei veri montanari. Restiamo estranei.

lunedì 9 agosto 2010

Condanne dolomitiche

Cambia continuamente il cielo di questa giornata.
Certo che c’è il sole ma il contorno bianco di nuvole e nuvole si sposta e si sfilaccia a seconda di come il vento le sospinga.
Siamo sotto la Roda di Vael (o più precisamente sotto la Torre Finestra, ché la Roda di Vael è un po’ più dietro, più bassa; da qui non si vede) ma sembra di essere in pieno centro, a Firenze: un ragazzo veneziano, appena approdato sul pianoro del rifugio omonimo, butta un’occhiata attorno e poi sconsolatamente gli cadono le braccia, “xè come piazza San Marco”. Ecco, appunto. Con la differenza che almeno non c’è la basilica...
In effetti è abbastanza un bordello: persone di tutte le età che si muovono in ogni direzione, chi sale, chi scende, chi sta a naso all’insù. Decine e centinaia di persone, perché se il mattino comincia con una seggiovia sotto il sedere (che ti fa saltare 500 metri di dislivello), va da sé quanto popolo possa esserci su per quei sentieri.
E, tra una nuvola e l'altra, ecco che spunta allo sguardo persino la Sforcella.
E’ un po’ questa la condanna perenne di questi luoghi, tra Catinaccio e Latemar, tra le cose migliori che le Dolomiti offrano: l’equilibrio impossibile tra bellezza, rispetto ed economia. Se così tanti turisti riempiono queste valli in ogni poro (pronti a riversarsi su decine di sentieri come un battaglione di solerti impiegati) forse potrebbe anche essere il segno di una consapevolezza maggiore, di un’esigenza di svago differente, di uno stile alternativo al turismo plastificato.
Ma è davvero così? O magari lo era un tempo ed oggi non più? O forse il meccanismo è identico anche dove appare differente?
Farsi una foto in un angolo caratteristico è come stare in coda al supermarket, qualcuno che grida frasi inutili dentro un cellulare c’è sempre.
E poi il benessere. C’è tanta gente agghindata con vestiti, materiali ed attrezzature a basso costo ma ce ne sono anche tanti che sfoggiano quanto di meglio la manifattura tessile asiatica sia oggi in grado di produrre per i mercati ricchi del mondo. Tessuti in fibre che dieci anni fa (ma che dico dieci? Forse anche solo cinque) non erano state ancora pensate e, mentre segui il passo di coloro che ti camminano davanti, noti le rifiniture perfette di quel cappuccio o la fantasia chiaramente ricercatissima di quella stoffa che serve solo per foderare un capo che puzza di firma anche da qui.
Insomma mi chiedo cosa c’entri il benessere con la fatica di arrampicarsi su per quei pendii, già che la fatica cerchiamo di rifuggirla in ogni modo nella nostra vita quotidiana, quella fatta di benessere, fitness, relax, health club.
Cosa ci viene in mente di gettare al vento il nostro ben bilanciato ritmo di vita bianco-occidentale-europeo, per gettarci a capofitto su (o giù) per quei viottoli dove la polvere ti mangia, dove il sudore cola giù senza chiederti permesso, dove inciampi ad ogni radice (ah già, la riconosci solo ora che è una radice… eh, non sei proprio abituato a vederne, in città)?!
In queste giornate così convulse, dove anche in quota si sta fitti come su un autobus dell’ora di punta, dov’è finita la misticheggiante retorica dei veri appassionati, quella iscritta, come su pietra, sulle riviste del settore che maledicono queste torme di maleducati e rumorosi invasori?
Anche questa passione, un tempo asperrima e selvatica (chissà perché mi torna in mente sempre e soltanto un nome, Tita Piaz…), si è oggi stemperata nel denaro che i turisti scambiano per un po’ di illusioni. Certo la bellezza dei luoghi resta, è immutabile, nessuna torma te la può portare via: basta alzare gli occhi e riempirseli coi rossi del tramonto (se le nuvole non sono troppo basse…). Ma pace e tranquillità non ci sono più, scomparse. Tradite dai negozietti che ormai vendono di tutto, dal gadget falso-etnico (e magari made in Cina esso stesso) alla carta dei sentieri, dal vino al kitsch purissimo. Tradite da quello stesso via vai che per molte famiglie vuol dire una parte importante (molto importante) di reddito annuo.
Una cosa sola, forse, può spiegare tanto accanirsi di così tante persone che, imperterrite, anno dopo anno, continuano a tornare in questi luoghi: il miraggio di un sentiero che scende verso valle nel pomeriggio. Un sentiero deserto dove nessun altro passo riecheggia. Allora ecco che torna il silenzio, solo il tuo passo batte sulla terra e la mente è libera, finalmente, di fare le proprie evoluzioni. Il vuoto, il silenzio: quello che cercavi.
Poi, mentre scendi verso valle immerso nei tuoi pensieri, sono i rumori di automobili costruite in Germania, caricate nel porto di Rotterdam e sdoganate in quello di Livorno che ti riportano alla realtà.

lunedì 2 agosto 2010

Oggi, 2 agosto 1980


Avevo quasi quattordici anni ed era mattina. Lì sulla spiaggia, la notizia della strage fu portata da una radiolina a transistor.
Per la mia famiglia Bologna era una fortezza inespugnabile, il luogo dove mio padre aveva sconfitto il cancro (una vittoria sontuosa in una famiglia semplice, di pochi mezzi) e a me capitava spesso, ancora in quegli anni, di accompagnarlo alle sue periodiche visite di controllo.
Bologna per me era un eden fatto di croissant (si sa, i ricordi sono strani, molto strani, a volte), di pane ferrarese, un lungo viaggio d'autostrada tra nebbie grigie e il mare, fin dove c'era. Bologna era una festa, una vacanza da scuola.
L'avevano colpita a morte, un po' di fascisti coperti dall'alto. Tanto in alto che ancora oggi "quel" potere, trasformatosi perché tutto resti uguale, ne ha paura. Scappa, non si fa vedere.
Eppure io mi ricordo, mi ricordo immagini confuse, mi ricordo il sangue, non so perché non vedo volti né corpi; ricordo il sangue, strisce rosso cupo, rivoli forse sulla pelle di qualcuno (una faccia...) ma non ne "vedo" i tratti. Ricordo le grida e le sirene e come rumore di automobili: stridio di freni, gomme che fischiano sull'asfalto, fumo. E grida, grida, grida... "Una bomba".
Avevo quasi quattordici anni ed era mattina. E oggi mi ricordo e ricorderò ancora e ricorderò sempre. E se la mia memoria non dovesse bastare la passerò a qualcun altro. La regalerò a chi verrà dopo.
Che duri a lungo. Che duri ancora. E poi ancora. Fino a scoperchiare i colpevoli. Quelli veri, maiali.
Bologna, 2 agosto 1980.

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