venerdì 28 marzo 2014

La donna grande è sempre più grande

Ok, aggiorniamo la situazione.
Come detto nel titolo, la donna grande è sempre più grande.
Oggi usciva da scuola un paio d'ore prima. Così hanno organizzato, lei, l'amica del cuore e il vecchio compagno di classe delle elementari, di andarsene a mangiare in pizzeria. Loro tre, da soli.
Si sono smessaggiati in lungo e in largo ieri pomeriggio poi, a sera, la donna grande, sempre più grande, è arrivata a portarci la buona novella:
- Domani io, lei e lui andiamo in pizzeria.
- Ah, e chi vi porta?
- Come "chi vi porta" (pronunciato con un che di schifeggiante sulle labbra, ndr)?! Andiamo noi. Da soli.
- Da soli? Mah... e sapete dove andare?
- Ma certo babbo, alla solita pizzeria dove andiamo sempre.
- E chi paga?
- Come "chi paga" (pronunciato con un che di definitivo sulle labbra, ndr)?! Pagate voi, chi sennò.

Ecco, insomma. La donna grande è sempre più grande e incide in maniera proporzionale sulle finanze (si fa per dire, eh) domestiche.
Poi però, dopo la pizza, tutti e tre sono arrivati a casa, eccitati e casineggianti come mai. Hanno raccattato dei trucchi da un qualche cassetto in bagno e si sono chiusi in camera della donna grande. Da dietro la porta, rigorosamente chiusa, si sentivano ridere, sghignazzare, cantare. A un certo punto, ho intuito che si stavano fotografando a vicenda.
Quando sono usciti un momento, per correre non so dove, per poi rinserrarsi in camera di nuovo, li ho intravisti chi con le gote viola, chi col lucidalabbra, chi con gli occhi marcati.
Una grande autonomia, mi sembra. I primi tentativi di segnare i loro confini di (pre)adolescenti. Soprattutto una grande e sana voglia di fare casino. In senso positivo, gioioso.
Solo una tragedia: un sacco di pessima musica, per ora.

venerdì 21 marzo 2014

Il crollo dei libri (e di chi ci vive)





Ho appena finito di leggere l’ottimo articolo di Christian Raimo su pagina99 e trovo che abbia ragione quando accusa le grandi aziende editoriali (e ricordiamoci dove lavorava fino a ieri Gian Arturo Ferrari…) di avere buona parte della responsabilità del disastro.
Da parte mia vorrei aggiungere qualche pensiero e qualche elemento. Anch’io lavoro nel settore, sono un “oscuro” agente commerciale di uno di quei grandi gruppi, e mi considero altrettanto importante di un autore, di un tipografo, di un editor, di un recensore, di un giornalista culturale (che peraltro, almeno per hobby, sarei anche…), di un addetto marketing. Anzi, di questi ultimi, mi sento molto molto molto più “necessario”.
A differenza degli editori (tutti, non solo i grandi), io non credo che la “lettura” sia una merce vendibile. Puoi vendere un libro, un quotidiano, una rivista, un sito ma non puoi vendere la “lettura”. Leggere è un processo completamente differente. Ha a che fare col desiderio, con una visione del mondo, con un comportamento. Leggere è come fare sesso, puoi solo volerlo. Sennò è violenza. Leggere è molto più vicino alla psicologia, al comportamentismo, che al marketing.
E infatti, io credo che grande colpa di questo disastro sia proprio dell’oscuro, arido marketing. Ricordo quando, agli inizi degli anni Duemila, ci fu la prima iniezione massiccia di marketing dentro l’editoria che era rimasta, fino ad allora, un settore artigianale che mal si piegava all’economia di scala, alla ristrutturazione necessaria.
Vado a memoria, gli esperti di fact checking journalism mi correggeranno, ma mi pare fu proprio la Feltrinelli, librerie ed editore, ad accogliere a braccia aperte manager di formazione esterna, provenienti per lo più dalla grande distribuzione (Esselunga, mi par di ricordare). Oggi le grandi aziende editoriali del paese sono tutte in mano a gente che viene appunto dalla grande distribuzione, da una casa automibilistica piuttosto che da una multinazionale del formaggino. Gente che, ci scommetto quel che non ho, se si esclude economia e commercio e il supermaster, non ha mai letto un libro in vita sua. Per il piacere di leggerlo, intendo. Per sé.
Gente che non ha mai più letto un libro.
Ossia: non sanno mica di cosa si stanno occupando.
Il tronfio manager del tronfio gruppo dominante (di cui si parla nell’articolo di Raimo) ci ricorda, ed ha ragione lui sia chiaro, che un editore non educa. Un editore vende.
Mercato.
Quindi fine del discorso.
Oppure.
Oppure si potrebbe pensare che per vendere un prodotto editoriale (libro? ebook? sito? connessione neurocerebrale ad alta densità di contenuti?) ci vuole qualcuno che lo legga. Che ne desideri non soltanto il possesso (ah ah ah, risate grasse) ma che abbia bisogno di volerlo, di fruirlo, di “farlo proprio”. Di leggerlo, appunto. Che abbia bisogno di quella fascinazione, almeno.

Se la situazione italiana è così disastrosa in confronto ad altri Paesi c’è anche un motivo strettamente legato al mercato e a come esso è strutturato qui da noi. L’Italia è, tra i principali Paesi occidentali, uno dei pochi dove i negozi nei quali il prodotto si vende sono tutti (o quasi) in mano ai produttori. Altro che monopolio.
Questo è diopolio. Il mercato del libro in Italia E’ degli editori. Non dei consumatori, non dei lavoratori del settore, non di una pluralità di concorrenti. Le grandi aziende editoriali hanno tutte (o quasi) la loro catena di proprietà dove fanno quel che vogliono, dove vendono quel che decidono loro “produttori”, dove impongono vita o morte ai piccoli editori, ancelle spesso semi-consenzienti o perlomeno costrette alla promiscuità perdente. Tra catene, inoltre, non esiste concorrenza ma cartello perenne, spartizione di spazi, una mano lava l’altra e tutte e due tengono il lettore con la testa sotto il pelo dell’acqua.
Così non c’è bisogno alcuno di fare qualità, di scegliere libri buoni, autori validi che abbiano qualcosa da dire. Oggi c’è bisogno di un mediocre prodotto che sia presto (spesso anche prima che il libro stesso esista) opzionato per il cinema, di una stupida ragazzina che obnubila il cervello degli adolescenti di mezzo mondo per radere al suolo ogni immaginario, di qualche grande firma (e sì, mettiamoci anche questi/e! Ché se lo meritano) che ormai asservita si presta ad intossicare ulteriormente l’aria che… leggiamo.
Basta un cugino (anzi, preferibilmente un parente o un amico di un amico) che sappia buttar giù qualcosa. Poi una forma gliela troviamo.
E non credete alla contro-balla che “non è vero che i libri di qualità, i capolavori (ammesso se ne scrivano ancora e io ci credo che se ne scrivono) mai rimangono chiusi nei cassetti ma escono sempre”. I capolavori (certo sono troppo pochi, non saturerebbero il mercato che invece deve traboccare) in realtà sono una iattura. Troppo difficili, non si vendono. Non li vuole più nessuno. Gli editori li fuggono, come la peste. Vade retro.
Molto meglio quel bel “prodotto medio che può essere letto nel tempo medio di una cagata media” (cit.).
Prodotti seriali che più seriali non si può. Evanescenti romanzucci sull’ombelico dell’ombelico del Qualunque. Saggi che di saggistico non hanno più nemmeno il sentore. Spesso porcherie piene di opinabili opinioni fatte passare per dati incontrovertibili. La scienza del chissacome, l’oggettività del forse/si dice/mi pare di aver capito. Tutto in nome di un fatturato che va tenuto in piedi così, come si tiene in piedi una mummia. Imbalsamando.

Perché poi tutti, in ogni settore merceologico, non solo in editoria, si riempiono la bocca col fatto che il “consumatore non è cretino, sa scegliere”. (Salvo poi offrirgli libri orripilanti, aggiungo io).
Io credo invece che noi consumatori, per definizione, siamo proprio cretini. Altrimenti non “consumeremmo”. Ma, data ormai per assunta la definizione e lo status di cretini, evidentemente ci stiamo anche stufando di quelli che ce lo ricordano ogni minuto di ogni giorno. Così leggiamo meno, magari rileggiamo qualcosa di quello che abbiamo già in casa e ci era piaciuto tempo addietro. Personalmente (purtroppo non leggo quanto vorrei, mi fermo intorno ai 40/50 libri l’anno) faccio sempre più difficoltà a ricordare un libro memorabile tra le novità editoriali. Ricorro ai classici, quando ho tempo disteso da dedicargli (perché l'ho appena detto, i capolavori sono difficili: “Moby Dick”, che due palle!). Ricorro agli autori del mio pantheon, oppure all’intrattenimento di qualità. Spulcio, rileggo. Alla peggio, se proprio devo, scrivo.

Naturalmente ormai è troppo tardi. Un libro in ogni casa è utopia irrealizzabile. Che peraltro abbiamo gioiosamente sostituito con device di qualsiasi ordine e grado. E almeno un paio a testa. Ché poi leggiamo anche lì sopra, sui device: facebook, twitter, i social. Se non è lettura quella! Ma basta parlare di libri, basta insistere, per carità.
Gli autori, poi! Che barba. Caro Christain Raimo sei obsoleto, mi dispiace.
Basterà un bel software per raccontarci il mondo, una storia, un’emozione o un dolore. Studiate mi raccomando. Diventate programmatori.

sabato 8 marzo 2014

L'otto marzo

Oggi è l'otto marzo.
Poi sono state assassinate Assunta, Ofelia, Silvana.
Oggi doveva essere l'otto marzo. E da domani?

mercoledì 5 marzo 2014

C'era una volta. Ovvero: festa di carnevale, a lieto fine

C'era una volta il/la rappresentante di classe.
Idee come rappresentanza, democrazia scolastica, organi collegiali. Significati desueti, scomparsi. Parole arcane. Anzi, oramai, ar vento, proprio.
Perché oggi, nel tempo limpido e splendente del porno-marketing (nel senso, abbiate pietà, che utilizza più o meno le stesse metodiche e lo stesso background, diciamo, culturale - senza che nessuno se ne scandalizzi più, vivaddio!, anzi), dicevo al tempo d'oggi il/la rappresentante di classe si è trasformato in un dinamicissimo organizzatore di eventi.
Per anni nessuno mai si sarebbe sognato di offrirsi candidato (sai le rotture, per carità!) per farlo. Negli ultimi tempi, un fiume in piena. Gente che offre mazzette, per un posticino lassù, accanto alle divinità delle pàbblicrelesciòn.

Che te organizzo a carnevale?
Eeeh!
La festa di carnevale. E il suo strumento è la posta elettronica. Perfida.
Così, parte la catena.
"Ciao, avrei pensato bla bla bla, per i nostri pargoletti, bla bla bla, il carnevale bla bla bla, non si divertono forse abbastanza durante il resto dell'anno?! (ndr), che ne pensate?".
Che ve credete voi?! Piuttosto.
Il mail è lo strumento del demonio.
Comincia il/la prim*: "Che bella idea! Facciamolo qui, il giorno tal de' tali e bla bla bla".

Ok, facile.
Tutti si accodano, no?
Per praticità e sveltezza dei processi decisionali, penso io pragmatico.
Corca.
Il mail è la libertà del cervello senza connessioni neuronali. Dobbiamo aver introiettato, da qualche parte nella nostra materia grigia, che siccome è il mail che ci connette, il cervello si può tenere spento. Sarà la libertà, a guidarci. Libera.
Arriva il/la second*: "Sarebbe meglio di sabato, in tal altro luogo, a quest'ora qui e bla bla bla".
Terz*: "Eh no, noi non possiamo proprio. A quell'ora abbiamo un altro impegno, quel giorno pioverà, famola al chiuso e bla bla bla".
Quart*: "Ah bene, d'accordo. Però. Però sarebbe meglio all'aperto. E di sera, e chi porta da mangiare? e bla bla bla".
Quint*: "No, niente mangiare, meglio organizzare giochi per tenerli impegnati, sennò si annoiano, a una festa?! Mischini, ndr, e quindi si fa al chiuso".
Il/la terz*, ribadisce: "Eh nooh, noi non possiamo proprio. Però. Però non importa dai, ci organizziamo, arriviamo dopo, veniamo via prima e di solito non puliamo il water".
Sest* (il sottoscritto): "Che?! C'è una festa? Quando?".
Settim*: "Le previsioni sono cambiate, la sala non è più disponibile. Facciamola al chiuso, no scusate all'aperto. Cambiamo sala. Chi raccoglie i soldi?".

Vado avanti?
"Ho trovato un'alternativa bellissima. Io porto i bicchieri, di plastica. La sala è meglio all'aperto. E in parrocchia no? Ma chi prenota? Non c'è più la sala, facciamola alla casa del popolo. In centro, no in periferia così ci si arriva con la macchina. Uffa dai, allora noi non veniamo. Io ho un altro impegno, la sera il pargolo fa meditazione trascendentale, si potrebbe fare di mattino? Ma no, di mattino c'è scuola. E chissene?! Io faccio una torta salata, anche una dolce; patatine? Non posso, qualcuno mi sostituisce. E la lezione di chitarra che faccio, gliela faccio saltare? Allora, s'è detto giovedì, vero? No, sabato. Ah okkei, vada per il martedì".

Che bello!
Io le feste (di carnevale, poi, più di tutte) le ho sempre adorate. Da ragazzino andavo, stavo zitto un monte, chiuso nel mio angoletto (qualche volta sbirciavo copertine di ellepì, per darmi un tono "mi si nota di meno") e la sera tornavo a casa più annoiato e sfavato (scusate il francesismo d'alta scuola) di prima. Non pomiciavo mai con nessuna (sì vabbé lo ammetto, ero un po' più grandicello, non come questi naccheri di quinta) ma in compenso sapevo tutto del grafico-illustratore-artista-geniale delle copertine dei Pink Floyd, Storm Thorgerson, me lo ricordo ancora. Qualche volta, capitava pure una copertina di Umberto Tozzi, giuro!, e lì non c'è mai stato verso: era devastante.

Alla fine, e non so nemmeno come tutti siano riusciti ad arrivare nello stesso posto e alla stessa ora e persino ognuno coi propri pargoli, la festa c'è stata. E' stata bellissima. Si sono divertiti un monte, dice chi c'è andato.
Io no.
Io sono rimasto a casa. Ma non per snobismo, giuro (un paio di copertine dei Pink Floyd me le sarei portate da casa volentieri).
E' che sono ancora qui a leggere i mail di convocazione e non capisco cosa dovrebbe accadere.
Ma dove?
Eee..... Quando?
E chi le porta le sfrappole?!
Le cheee?!

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