giovedì 31 dicembre 2009

Auguri?...

Per il 2010 ci sarà bisogno di tanti auguri, non basta farceli una volta sola.

Quindi:

buon anno qui

e

buon anno anche qui.

Visto che fortunati?
A differenza dei blogger (e cittadini) cinesi, birmani o iraniani, noi possiamo scegliere.

mercoledì 30 dicembre 2009

...per l'anno nuovo

In questi giorni, ma che strano, è tutto un fiorire di post ripieni di, buoni o meno buoni, propositi e/o riflessioni tutti new year-oriented. Vedi Blimunda, qui, oppure Totanus, qui.
Io non mi sento da meno e anzi ho deciso che tutta 'sta bontà (il 2010 sarà l'anno "dell'amore", secondo risapute previsioni catastrologiche, giusto?) mi dà noia. Preferisco essere sincero: le mie sono richieste. Vere e proprie.
Che qualcuno le esaudisca, quindi.

Le elenco:
1) voglio che nel 2010 il Parlamento sia sostituito da un bivacco di manipoli così la smetteremo di lamentarci di tutto il terribile che ancora potrebbero combinare. L'avranno già fatto.
2) Voglio che nel 2010 "Vanity Fair" smetta di essere il nostro maitre-à-penser (guardate qui, il già citato post di Blimunda ma anche qui, Sosmammo) e che si possa tornare a pensare un poco oltre.
3) Voglio che nel 2010 si facciano quei decisivi passi avanti verso la soluzione delle questioni di discriminazione uomo-donna: non capisco perché se la profe rientra dal lavoro alle 8.00 di sera finisce "che qua faccio tutto iooooo! Non ce la faccio piùùùù a reggere ritmi simili!! Alza il culo da quel blooog!!!" e se invece sono io a tornare alle 9.00 diventa "dove diavolo sei stato fino a quest'ora, perditempo di un perditempo"? E non ho nemmeno preparato la cena.
4) Voglio che nel 2010 i pargoli possano liberamente attingere la loro formazione, scolastica e non, alla televisione: niente più bisogno di portarli e andarli a prendere ogni giorno, niente più gravami sui bilanci dello Stato per quei mangiapane a ufo degli insegnanti, niente burocrazia tipo riunioni di classe o Consigli di Circolo e, soprattutto, è molto più economico anche per le famiglie. In qualche caso, non c'è nemmeno da pagare il canone.
5) Voglio che nel 2010 le badanti, che so, ucraine oppure senegalesi, non siano costrette dalle loro vecchie despote a rimanere prigioniere in casa a lavorare anche il giorno di Natale "perché tanto questa non è la vostra festa e non sapreste cosa farvene di un giorno libero". E questo accade anche a Firenze, vi assicuro, non solo a Coccaglio...
6) Voglio che nel 2010 - qualcosa anche per me, finalmente -, io sia capace di usare le parole e il mio pensiero in maniera chiara, corretta e onesta, con tutti quelli che avrò intorno. E... tenetemi lontano quella statuetta: mi sembra un po' troppo a foggia di duomo.

Infine, l'uomo piccolo ha dichiarato - testualmente - che nel 2010 vorrà avere la febbre o l'influenza soltanto quando ce l'avrà anche "la sua sorella" perché così non sarà costretto a rimanere chiuso in casa senza far niente, pur essendo sano.
Su questo, però, siamo stati esauditi in netto anticipo: trentasette e nove anche lui. E ancora nel 2009.
Evviva!

martedì 29 dicembre 2009

Capodannazione

Sì, va detto: la donna grande non gode di troppa fortuna, nella vita. Oh!, niente di grave: nulla che non si possa risolvere con un bel pianto consolatorio.
Ma.
Vi sembra possibile avere la febbre alla vigilia della sua prima gita scolastica?!
Oppure avere la febbre la sera prima della festa di halloween con tutti gli amici di classe?!
Beh, indovinate.
La donna grande ha la febbre, stasera. Adesso.
Il giorno prima della partenza per festeggiare l'ultimo dell'anno coi nostri amici.
Ed era disperata, sinceramente disperata. Perché oltre ai nostri, di amici, ci sono anche i suoi, quelli coi quali va perfettamente d'accordo, coi quali s'intende con uno sguardo, quelli di sempre prima ancora della scuola.
Abbiamo cercato di consolarla in "n" modi: abbiamo già soffiato il naso parecchie volte, abbiamo giocato a carte, fatto la lotta riparatrice. E preso tachipirina, come da manuale.
Ora siamo pronti per la visione di un cartone: che non restino consolazioni non tentate...

Ma anche noi adulti ci saremmo rotti di tanta "sfortuna". Vada per domani, si sta in casa riguardati sperando che passi. E almeno proviamo a partire il 31. In extremis, ma tanto il brindisi si fa a mezzanotte.
C'è tempo.
Teniamo d'occhio il termometro.

lunedì 28 dicembre 2009

Natalizio

Mia figlia, a otto anni, sa leggere la musica sullo spartito come se leggesse Topolino. Da un paio d'anni a scuola hanno un corso base di musica (il solito amichevole flauto), da qualche mese strimpella frequentando un corso di piano (tanto che Babbo Natale ha giustamente portato un tastiera - ché il piano in casa proprio non ci stava...): niente di trascendentale, quindi, è solo che i tuoi skills, se li coltivi da subito, te li ritrovi appresso come se nulla fosse. Fanno parte di te, della tua crescita, come saper fare le addizioni o ricordare il nome del fiume che ti scorre sotto casa.
Quando io avevo otto anni, mio padre modellava legno con le sue mani. I suoi skills li aveva ereditati da suo padre che, a sua volta - banalone, eh?! -, li aveva avuti da suo padre e chissà fin dove, risalendo la genealogia. Quando avevo otto anni passavo lunghi pomeriggi in quella che il lessico familiare ha sempre definito la "bottega": non un laboratorio artigiano che dà l'idea di prodotti buoni da vendere, no. Proprio, semplicemente, "bottega", una bottega di falegnami. Perché, in effetti, mio padre aveva un fratello e i falegnami erano due.
Io, da parte mia, coltivavo i miei skills: facevo l'apprendista bambino e quei lunghi pomeriggi spesso avevano il sapore del silenzio (ché i fratelli erano taciturni) e del ronzio degli arnesi: la sega elettrica, la pialla, il tornio, il compressore per la laccatura. Martello e chiodi erano proprio l'abc e non producevano ronzii ma sonorissimi colpi. La colla invece sgugolava, per così dire, sotto il pennello.
Ah, parole mitiche: "impiallacciatura", chi, a otto anni, può dire di aver giocato con tali meraviglie sulla lingua?!
Per me Natale era un pomeriggio come tanti altri a veder sgobbare due falegnami sopra l'arredo di un intero soggiorno (per la nostra casa; mio zio non si è mai sposato e di certi "lussi" non ha mai avuto bisogno...), dal tavolo ai ripiani delle scansie fu tutto fatto a mano e colla e tornio e chiodi e.
Natale per me durava sette anni. Perché, lavorando nel tempo libero dal lavoro "vero" (entrambi falegnami industriali in una banalissima fabbrica), quei due ci misero sette anni a portare a termine l'impresa, scalpello alla mano, praticamente come nel Rinascimento. Se escludiamo l'elettricità, infatti, il metodo era quello di allora.
Insomma, io a otto anni facevo prove di Rinascimento, vedevo la maturità di due giovani uomini, la loro passione tattile per la materia legno, consumarsi in quei lunghi pomeriggi talvolta torridi (in agosto), altre volte gelidi (non c'era mica il riscaldamento, nella "bottega").
Per me natale comincia ad avere la lettera minuscola, da anni ormai, perché è più familiare e godereccio ricordare in piccolo che non vivere pomposamente una festa strabica.
Mia figlia, che a otto anni legge le note musicali come un pensierino sul quaderno, non saprà nulla di quella epopea durata quasi quanto il viaggio di Ulisse.
Perché Ulisse, oggi, non lo racconta più nessuno e anche se lo racconti, non è mica così trendy.
Perché i mobili, oggi, te li compri all'Ikea.
Perché al posto di quella decrepita "bottega" (a proposito, erano davvero quattro muriccioli sottili e sghembi ed un tetto appoggiato a poche assi. Le finestre erano torte e un vetro pure rotto), oggi c'è una lucrosa lottizzazione di orribili casacce geometrili.
Sopra i miei skills di apprendista bambino, sopra quelle storie.
Sopra il mio minuscolo natale.
Che skills!

domenica 13 dicembre 2009

Che gioco siamo

Malgrado l'aria tagliente, stamattina ci ha colto un attacco di euforia: abbiamo preso le biciclette e ci siamo concessi un giro da... turisti.
Nella nostra città: il duomo e il campanile di Giotto (finalmente pedonalizzati!), il Bargello, Piazza San Firenze, Palazzo Vecchio. Una sosta in adorazione del Perseo di Cellini (e questo è un rito tutto desian-centrico: quella statua mi attrae di un magnetismo assoluto) e poi via di nuovo, lungo gli Uffizi, fino al Ponte Vecchio: l'uomo piccolo aveva espresso quella come sua meta del giorno.
Prima di rientrare per il pranzo siamo tornati in Piazza Signoria dove c'erano gli stand del Rigiocattolo e i pargoli hanno potuto scegliere un gioco da comprarsi, in totale libertà.
L'imbarazzo della scelta è durato abbastanza poco.
L'uomo piccolo è stato il primo a decidersi ed ha optato per un utensile giocattolo, una riproduzione di un seghetto elettrico da bricoleur:
"Babbo, ti prego, me la compri? Mi serve per completare la mia cassetta degli attrezzi. Ti prego"!!!
Non ho battuto ciglio e siamo andati dritti dritti alla cassa: l'entusiasmo è sprizzato alle stelle e si sono sprecati ringraziamenti.
La donna grande invece ha scelto un minuscolo peluche di un'orca, quasi l'idea platonica dell'oggetto da coccolare. Lo ha scelto perché "è tenero". Così ha dichiarato.

Devo confessare che queste due scelte, e il contorno che le hanno generate, mi hanno dato di che riflettere.
Nella scelta dell'uomo piccolo e, soprattutto, nell'accoratezza della richiesta e nel profluvio di ringraziamenti successivi ho intravisto una precisa necessità. Il fatto di scegliere un oggetto che gli serviva "per completare la mia cassetta degli attrezzi" (che in effetti possiede e usa molto nei giochi) mi ha fatto pensare alla sua necessità di ricomporre in qualche modo il suo orizzonte e i pezzi sparsi del suo attuale momento.
Mi spiego: l'impatto con la scuola elementare è stato faticoso, gli ha lasciato addosso un profondo senso di fatica e frustrazione tanto che dichiara a destra e a manca di essere "il peggiore" o anche "il più cretino" della classe. Sappiamo quali sono i contorni della questione e, confortati anche dai pareri delle insegnanti, valutiamo che non ci sia nulla di particolarmente preoccupante né oggettivo dietro ciò.
Resta il fatto che per lui il salto dalla materna abbia comportato notevole fatica e uno scombussolamento dei suoi riferimenti (anche solo il fatto che ora si "compete" nell'apprendimento e nel fare il lavoro in classe gli ha causato un certo stress iniziale) e aver scelto un gioco che non fosse una novità e che invece tornasse ad un mondo conosciuto e intimo come la sua cassetta degli attrezzi, lo deve aver rassicurato non poco. Insomma una ricomposizione, attraverso il gioco, di uno spazio che lo accogliesse di nuovo nella sicurezza di regole conosciute e proprie.

La donna grande invece sta crescendo a vista d'occhio e le sue insicurezze vanno tutte nella direzione del confronto: per carattere è una bambina che, pur assolutamente portata verso il sociale e le amicizie, gode molto anche di spazi e tempi tutti suoi, senza nessuno attorno e coi ritmi che sceglie lei.
Invece l'aumentata importanza del suo sociale in questa fase (l'altro giorno, per esempio, il suo primo pigiama party o cose così) la diverte, certo, ma la stanca anche. Il continuo trovarsi a contatto con amici e compagni di classe anche dopo gli orari scolastici la mette in difficoltà sulla scelta e la fruizione di quei tempi e quegli spazi, che per lei sono vitali. E si trova forse un pochino lontana da se stessa, più di quanto è pronta ad accettare, almeno ora all'inizio. Così, la piccola orca l'ho vista come la sua necessità di tornare a coccolarsi come una bambina (più) piccola (di quanto ormai non sia), con uno spazio più a sua misura. La necessità di tornare al suo mondo o di non abbandonarlo ancora del tutto, prima del confronto totale con il mondo esterno.

Così ho giocato questa domenica, in compagnia di riflessioni che mi hanno intenerito.
O forse, semplicemente, mi faccio delle grandiose seghe mentali?...


Questo post partecipa al blogstorming

giovedì 10 dicembre 2009

Lettere

Insomma ormai è chiaro: se ci sono delle lettere vuol dire che Natale arriva.
Anche quest'anno.
Quello che invece mi comincia a stare stretto è il concedere tutta questa autodeterminazione, ai popoli.
Che poi quelli, guardate qua, se ne approfittano: gli anni precedenti eravamo riusciti a mettere un'amorevole argine a richieste esose ("No, Babbo Natale il Nintendo DS non lo porta perché lui è rispettoso e chiede sempre conferma ai genitori", meschini).
Quest'anno, no.
Quest'anno l'autodeterminazione delle masse ci ha scavalcato: quando ce ne siamo resi conto, le lettere erano già pronte. E quindi guardate qua che genere di richieste avanza la donna grande. La lista della spesa...
E lo stile: la rappresenta alla perfezione. Intanto, ella scrive a pennarello e il suo carattere preciso ma vezzoso (mica la biro!) fa capolino. Mentre le correzioni in corsa denotano l'ansia di
dimenticarsi qualcosa.
Insomma, importo calcolato: al di sopra di ogni ragionevole tolleranza (ché poi tanto tutta quella roba non serve...).


L'uomo piccolo, invece, usa il lapis (sì, insomma: la matita) perché ad essere casinisti-fuori ti rimane poi dentro un che di francescano e la sua lettera è spartana, spartanissima (certo, ha scritto computer, ma sa che non c'è verso: Babbo Natale avvisato, mezzo salvato!) e il monopattino all'inizio se l'era persino dimenticato: è stata un'aggiunta dell'ultimo minuto.
Quando si è reso conto che in effetti aveva esagerato: in morigeratezza!
Poi ha perso la favella, la parte di cervello che sottende il linguaggio è andata in tilt e, resosi conto che non sarebbe mai riuscito a prometterlo, lo ha chiesto in regalo: caro Babbo Natale, solo tu ci puoi riuscire. Fammi essere buono. Ma "tutto anno", eh!
Speriamo ci riesca, Babbo...

mercoledì 9 dicembre 2009

Post-partum paterno: un approfondimento

Sollecitato da questo commento di Serena, ho provato a chiedere qualche precisazione al professor Pazzagli che, con grande gentilezza (e lo ringrazio per questo!), risponde come segue:


"Certo vi sono fattori culturali, ad esempio la covata rituale è molto diversa e probabilmente utile per manifestare partecipazione evitando nel contempo disturbi psicopatologici ma anche cambiamenti culturali significativi (evitiamo di idealizzare il "buon selvaggio"!).
Ho sempre visto l'esclusione paterna come causa di una sofferenza che, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra sotto forma di disturbi. La partecipazione paterna può essere efficace a prevenire disturbi a patto che non diventi una tenerezza un poco di maniera, una sorta di formazione reattiva all'aggressività, come mi pare tenda oggi ad accadere non di rado. Sentendosi un poco costretti dalle madri, alcuni padri possono sentire risentimento e trasformarlo in eccesso di tenerezza. Per fare un esempio, le madri esasperate per certi comportamenti dei figli possono dire "Io ti ho fatto ed io ti disfo" manifestando sentimenti ostili ma all'interno di una forte cornice di amore. Questo è ciò che, per ora, con maggior difficoltà è possibile ai nuovi mammi".

lunedì 7 dicembre 2009

Post-partum paterno

Anche i padri soffrono: la scoperta dell’acqua calda.
Che però, a vederla squadernata per benino sul libro che stai leggendo, fa sempre il suo effetto.
Anche i padri hanno le loro crisi post-partum, le depressioni. I crolli.
Il capitolo che ne parla (perché il libro, in sé, non riguarda il patologico ma sarebbe dedicato alla figura paterna in senso più generale) è curato dal professor Adolfo Pazzagli e le spiegazioni, molto brevi ma precise, non lasciano dubbi: anche noi si soffre. E nessuno ne parla, accusa l’autore (come non essere d'accordo), se ne fa spallucce. Al massimo si snobba o si piglia in giro: “non rompere”, in buona sostanza, è la chiosa.
Invece no. Invece è cosa seria ed ha le sue conseguenze che, nei casi estremi, arrivano molto lontano, fin dentro la psicopatologia vera e propria. Così, schematicamente, vengono riassunte alcune delle manifestazioni possibili: astenia, aspetti ipocondriaci, impotenza sessuale, abusi alcolici, esplosioni di aggressività verso la moglie e/o il bambino, sentimenti di colpa e di inadeguatezza nei confronti degli stessi, sentimenti di svalorizzazione di sé, di inutilità, di incapacità.

Volendo sistemare con un po' di criterio ciò che il professor Pazzagli dice, sono due i momenti a cui far riferimento: la sindrome della couvade e gli "acting" come momenti di difesa dalla crisi, da un lato, e le depressioni della paternità, vere e proprie psicosi "puerperali" paterne, dall'altro.
Con una premessa: che le crisi della paternità Pazzagli le fa comunque risalire, almeno generalmente, all'inibizione della tenerezza (o comunque al conflitto tra la necessità di reprimere "culturalmente" e la possibilità di accogliere quei sentimenti di tenerezza) che da sempre caratterizza in primo luogo il vissuto maschile e di conseguenza quello paterno.
Inoltre, volendo dare prospettiva storica alla questione, l'autore risale ben oltre Freud, andando a prendere come esempio ampi passi del libro di Leon Battista Alberti "I libri della famiglia" nel quale c'è un lungo dialogo a quattro sulla paternità e le sue sofferenze o difficoltà; e siamo nella prima metà del '400!

Ma torniamo a noi: la couvade (letteralmente "covata") è un comportamento atto a somatizzare nell'uomo lo stress della situazione, si verifica infatti in prossimità del parto, e si manifesta con perdita dell'appetito, nausea, vomito, mal di denti, dolori renali. Tali manifestazioni sono facilmente riconducibili ad un meccanismo di identificazione con la partoriente e sono considerate fenomeni abbastanza comuni e sostanzialmente normali: hanno funzione puramente difensiva.

Per acting invece si intendono quelle azioni compiute per impedirsi di pensare: l'imminente paternità riporta alla luce nel soggetto una conflittualità non elaborata che si manifesta proprio in quello che si vorrebbe evitare ossia lotte (anche mediate da un'iperattività fisica, soprattutto sportiva, oppure con caratteristiche di aggressività), fughe (spesso gettandosi freneticamente nel lavoro oppure usando quest'ultimo come "evasione" da casa o anche con fantasie e tentativi di suicidio in collegamento con autodistruttività e sentimenti di inadeguatezza), attività sessuali (spesso la sospensione dell'attività sessuale con la donna madre coincide con l'instaurazione di relazioni extracoppia o di pulsione omosessuale). Tali comportamenti sono comunque transitori ed in netto contrasto con le abitudini e gli atteggiamenti usuali di questi uomini.
Anche gli acting, reazioni che evitino di pensare al problema, sono relativamente frequenti e, entro certi limiti, considerati normali.

I momenti depressivi veri e propri, invece, mettono in moto meccanismi più profondi e sono considerati episodi psicotici acuti con la rottura, più o meno marcata, del rapporto con la realtà condivisa. Quindi oltre alla "perdita di libertà" (il soggetto si comporta in questa maniera ben oltre la propria volontà) vi è anche il collasso dell'organizzazione caratteriale: il soggetto non è in grado di fronteggiare il cambiamento nella sua vita ed il relativo significato.
Pur se ancora poco studiati, questi disturbi dell'uomo nel rapporto con la (soprattutto prima) paternità hanno le caratteristiche classiche delle psicosi acute e non derivano da precedenti episodi nella storia personale o familiare del soggetto. E' anzi del tutto differente il vissuto di questi soggetti: spesso si trovano difficili rapporti con i propri genitori, un legame preferenziale con la madre (ah, gli italiani mammoni!) e un ruolo subalterno nella relazione di coppia: l'incapacità di mettere mano a questo rigido sistema di relazioni per modificarlo è alla base della difficoltà di assumere la funzione paterna, liberandosi contemporaneamente della conflittualità edipica nei confronti dei propri genitori.

Queste poche righe altro non sono che il tentativo di riassumere in maniera semplice e schematica un ragionamento ben più ampio ed articolato: il travaglio della paternità si esprime in tanti modi differenti, con molteplici manifestazioni e risposte altrettanto calibrate.
Se ognuno di noi bada al proprio vissuto personale (almeno chi non è terapeuta di mestiere), devo riconoscere che la lettura di questo capitolo mi ha aperto gli occhi su molti eventi e fatti e sofferenze con i quali mi sono confrontato all'epoca, riconoscendo parecchio del mio vissuto in quelle descrizioni.
Aver avuto allora gli strumenti, non dico per risolverli ma almeno per fronteggiarli, mi sarebbe stato molto utile e avrebbe evitato lunghi travagli e percorsi di riavvicinamento ad un ruolo che oggi, finalmente (ri-)conquistato, adoro e mi riempie.
E nemmeno si tratta di dimostrare una sorta di invidia della sofferenza materna, come nel libro ad un certo punto si suggerisce. Serve anzi ad avere parole per comprenderla quella forte sofferenza, la terribile inadeguatezza che ci immobilizza.
E avere le parole per dirla (mi perdonerà Marie Cardinal...), anche, quella immane difficoltà e non vergognarsene affatto.
Perché la vergogna emargina e mette in fuga.
La comprensione e l'accettazione (soprattutto dei propri limiti) aiutano a rimanere saldi e, magari, a cercare soluzioni alternative all'inutile battere la testa contro il muro.

mercoledì 2 dicembre 2009

Gli accessori del babbo (12): l'anima e la corazza

Quando la sera torno a casa e butto a terra la corazza e le spade quello che sento è solo il clangore della giornata che ho appena trascorso. Il senso di spossatezza lasciato da quei paludamenti che non amo (come amare le armature che sono per la guerra?) mi fagocita: stare nel mondo come un Achille distruttore è lontano dalla mia intima essenza. Serve: a lavorare, a trovare il ruolo adatto nel campo da gioco della vita. Gioco pesante, quasi un wargame, ancora.
Poi, subito dopo, mi prende il timore di cosa mi chiederanno, di lì a poco, i miei figli. Come mi verrà incontro la donna grande, cosa avrà bisogno di dire? E l'uomo piccolo quale artificio vorrà vedere, la mano ferma sull'elsa o la carezza dolce che la medesima mano può scegliere di dare?
Altro che gesto di Ettore, la situazione si complica: perché oggigiorno i punti di riferimento sono mobili e cambiano e si spostano con velocità sempre crescente. Anche noi, che come generazione abbiamo conosciuto poche certezze e molte rincorse, siamo spiazzati di fronte alla velocità (il futurismo all'ennesima potenza distruttrice) e alla liquidità che respiriamo.
Così i nostri padri, o semplicemente genitori come noi soltanto un po' più grandi, consigliano ai figli di andarsene, di scappare finché sono in tempo.
Ché questo Paese ormai ha il destino segnato.

I miei figli oggi sono bambini, prigionieri di una condizione che li lega a noi per (soprav)vivere, non possono andare da nessuna parte. Non scapperanno, ancora per un po'.
E allora, con la corazza abbandonata vuota in un angolo, cerco qualcosa dentro di me, una scintilla di umanità (no, niente di divino, mi spiace), un gesto ricordato laggiù che mi coprì la guancia e mi insegnò a non gridare mai. Perché le grida impediscono di sentire. Oppure cerco i loro sentimenti di pargoli in piena attività, celati dietro domande ingenue ma dure, profonde, implacabili. Spolvererò le emozioni che faticano ad uscire fino a renderle scintillanti e luminose. Insegnerò rispetto se sarò capace di viverlo, amicizia sorridendo, spirito critico per abbattere il brutto e costruire meglio.
Se fossi capace. Ci proverò.

A noi padri riporre le armi, svuotare la corazza lasciandola alla ruggine e usare le mani per indicare la via e carezzargli le spalle che iniziano il cammino.

E allora, chi ha davvero il destino segnato? Un Paese che non si sveglia dal suo medioevo di ritorno o i nostri figli, condannati alla fuga?
Io non avrei dubbi, se non fossi il loro genitore.
Invece: che ne sarà stato del lavoro quando toccherà a loro entrare in quel mondo? Che diritti avranno domani, visto che non sono ricchi e potenti? Che spazi si apriranno di fronte alle loro legittime aspirazioni, ai loro desideri e aspettative? Che vita avranno? Che.

Però qualcosa penso di saperlo: e scappare non mi sembra la soluzione. Allora proverò a dar loro degli strumenti, quelli che troverò a disposizione e potrò lasciargli da maneggiare, proverò ad insegnargli cosa significa essere cittadini di un posto e lavorare perché quella condizione possa essere mantenuta e migliorata, e anzi portata con sé altrove, se uno mai dovesse spostarsi. Proverò ad insegnargli che dopo di loro arriverà qualcun altro e se tu scappi non lasci più spazio a nessuno.
Lasci il vuoto, il vuoto della tua mancata presenza.
Il vuoto del tuo lavoro non fatto.
Il silenzio di chi non ha saputo capire.

Alcuni ringraziamenti vanno a: Loredana Lipperini che ha appena finito di parlare di questo a Fahrenheit su RadioTre, a Benedetta Tobagi che ne ha scritto oggi su Repubblica, a Pierluigi Celli che ha inviato una lettera ad un figlio e l'hanno letta tutti.

Aria di casa

Aria di grande eccitazione, ultimamente.
La donna grande ha passato il pomeriggio da un'amica: ho scoperto stasera, quando sono andato a recuperarla, che avevano da mettere a punto qualcosa. Tra donne.
Fra una decina di giorni, infatti, partecipa al suo primo pigiama-party e il pomeriggio lo hanno passato tra liste di ospiti, modalità per consegnare gli inviti, logistica del "dove li mettiamo tutti quei sacchi a pelo"?!
Il culmine lo abbiamo raggiunto nell'elenco del necessaire: sacco a pelo, beauty con i beni di primo conforto, invito alla mano. Lo spazzolino da denti e quello per l'apparecchio prima ancora.
E poi? Beh, poi il pigiama. Sperando di averne uno presentabile in trasferta...

Invece l'uomo piccolo è rimasto in casa, solitario.
Senza sorella e si è dovuto accontentare della sua babysitter che però in compenso gli ha tagliato i capelli (queste donne che arrivano dall'est sono quanto di più multipurpose si possa sperare: la nostra è persino in grado di progettare un impianto elettrico. Giuro!), fatto disegni fantastici, ascoltandolo pure nei suoi deliranti soliloqui: la sentivo ridere dall'altra stanza...
Insomma, l'uomo piccolo ha scoperto da un po' il dolce torpore della droga multimediale 2.0: Farmville, Happy Aquarium, Fishville e non so cos'altro, per lui non hanno più segreti. Il problema è tenerlo lontano dalla tastiera.
Qui in casa, dove per anni i computer (sì, entrambi!) sono stati accesi da mane a sera senza remore, siamo ridotti alla fame: li teniamo rigorosamente spenti, almeno quando c'è lui in giro (ché la donna grande, che pure partecipa anche lei al medesimo torpore, è più ragionevole. Ah!, le donne).
Il problema, però, non è tenerlo spento, ché lo riaccende benissimo da solo.
Il problema è tenere lontano lui dal tasto on.
Il problema, in più, è blindare la stanza per far sì che non ci scivoli dentro.
Il problema è affrontare la scimmia: verso sera, quando ormai si accorge che ci avviamo, pericolosamente ma decisi, verso la cena e realizza che il tempo per alienarsi sta scappando via, entra in uno stato pietoso.
Comincia a saltellare ovunque straparlando a voce alta. E saltella sulle ginocchia, mica in piedi.
Consigli terapeutici?!
Grazie...
(E per fortuna che arriva natale).

martedì 1 dicembre 2009

Giorni rotondi


Ne avevo già detto qui, promettendo di parlarne ancora.
Ebbene, come uscire dall'impasse di dover mettere mano a un'epopea, seppur piccina, seppur di provincia?
Una città di neanche 50.000 abitanti ha racconti che nessuno, di solito, si prende la briga di mettere in fila. Spesso sono narrazioni tradizionali, qualche volta storici locali si applicano a sistematizzare vecchi documenti e memorie ancora più nascoste, qualche poesia vernacolare.
Eppure quella città, proprio perché provincia diffusa, ha bisogno di uno sguardo altro, di un'osservazione che, partendo dall'interno, vi si riaccosti in un viaggio a ritroso. Un ritorno.
Tornare è una parola complicata, uno stato della vita che mette di fronte a scelte precise, a sentimenti che potevamo credere gestiti, a ferite che ancora suppurano.
Tornare è una memoria, è la scelta di farlo, quel percorso. Di scavare nell'oralità cannibale che, talvolta, cambia i connotati alla realtà. A volte li infiora. Oppure racconta, parla.
Scopre.

Nel 1981, quando la Storia di questo libro sembra cominciare, avevo la bellezza degli ignari 15 anni: un po' poco per esserci, troppi per sottrarsi davvero. Ma la Storia, in questo libro, comincia ben prima: diciamo nel 1970, il 23 dicembre.
Quella sera, sì era buio ormai, una nave di pesca oceanica che tornava da Venezia dove aveva fatto manutenzione, con un equipaggio di 10 persone, viene rovesciata dal mare in tempesta, crudeltà del destino, a poche miglia (una vera manciata) dal rifugio nel porto sicuro. San Benedetto del Tronto.
All'improvviso, l'antivigilia di Natale diventa, per una città intera (piccola e di provincia, ma intera) il peggiore degli incubi, la rappresentazione biblica dell'impotenza assoluta.
Il mare è grosso, una vera tempesta, nessuno si prende la responsabilità di uscire in mare per tentare il salvataggio. Giorni interi passano, con la nave rovesciata che va alla deriva, senza che nessuno intervenga. Dalla possibilità di trovare superstiti si passa direttamente ai cadaveri certi.
Dieci.
Il Natale per dieci famiglie sarà la tragedia più grande.

La rabbia della città, di fronte all'incapacità di far fronte all'emergenza, si trasforma in furia: manifestazioni, blocco della stazione ferroviaria, blocchi stradali.
Una città e la sua popolazione in rivolta.
La comunità si cementa attorno al suo immenso dolore.

Silvia Ballestra si è caricata sulle spalle questa responsabilità e, partendo da questa storia (una sorta di mito fondativo per tanti che come me avevano 4 anni nel '70 e questa vicenda l'hanno sentita raccontare, favoleggiata nella sua tragicità), ha raccontato in questo romanzo che piega prese quella rivolta che diventò prima consapevolezza poi lotta politica poi momento di conquista di diritti (la stipula di un Contratto Collettivo Nazionale della pesca, che fino ad allora non esisteva, si fa risalire al lavoro politico e sindacale fatto in quegli anni dai giovani di sinistra sambenedettesi) poi degenerò in devianza terroristica poi nella falce mortale della droga e infine, a saldarsi con la tragedia primigenia, in nuova tragedia e immenso dolore. La vendetta brigatista colpì il fratello inerme e innocente di Patrizio Peci, il primo pentito BR: il 10 giugno 1981 Roberto fu rapito da un commando; il 3 agosto fu barbaramente giustiziato da quei pazzi.
Il sangue, ancora, su una famiglia che non c'entrava nulla con le degenerazioni della Storia italiana.
Molte cose finirono quel giorno, la nostra innocenza svanì. Se col naufragio del Rodi avevamo perso dieci uomini di mare e acquisito una coscienza collettiva, coll'assassinio di Roberto Peci perdemmo l'innocenza: il senso di tutto quello che era stato prima era morto. Sepolto per sempre nel dolore che vedevamo dove non avrebbe dovuto essere. La città, ancora una volta, si strinse al dolore altrui.

Mi dicono che in questi giorni, il libro è uscito da poco, laggiù a San Benedetto del Tronto si stia scatenando un enorme, doloroso, polemico dibattito che talvolta prende forme un po' contorte, altre volte scade in vecchie polemiche di campanile e/o di presunte negazioni delle origini: Ballestra vive lontano da anni. Come me, d'altronde.
Altre volte si chiedono alla realtà forme che questa non sempre sa prendere: un romanzo non è un trattato di storia (e molti sono gli angoli bui...) ma ha il pregio di spalancare le porte, di sbattere le finestre. Molti miei concittadini (storici, politici, professori universitari, persone che c'erano allora) sono assolutamente più titolati di me per aggiungere qualche voce a questa narrazione.
Io ho voluto parlare di un libro (che tra l'altro non è così cupo e doloroso come l'ho descritto finora: ci sono aspetti divertenti e malinconici, si ride e si piange, si scherza e si riflette e altro ancora), di un pezzo di quel racconto, perché anche la mia terra, come tutte le terre, ha le sue ferite. Io, che ero bambino e poco più all'epoca, di quelle ferite sentii solo il sapore ferroso del sangue: le mie erano estati felici di ragazzino. Ho recuperato lembi di memoria, leggendo questo libro oggi. Ho recuperato una parte di me che non conoscevo (non sapevo di averla sfiorata, vivendo in quegli anni?) e sono cresciuto di un altro pezzettino.
Una parte di quel dolore terribile l'ho visto dentro gli occhi, con la loro inarrivabile dignità, di alcuni.
Oggi lo rispetto ancora più di allora.
Oggi lo capisco da adulto.
Oggi.

Poi tutto finì.

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