venerdì 10 maggio 2013

Fallimenti

L'uomo piccolo scende dal tatami e mi passa davanti come una folata di vento. Nemmeno mi guarda. E, con una faccia che è tutta un programma:
- Babbo, sono un fallito.
Poi, si chiude nello spogliatoio.
In un baleno ho compreso l'espressione un terribile quarto d'ora. Il prossimo.
Che tragedia esistenziale sarà successa (a nove anni...)?! Cosa faccio per rimetterlo in carreggiata? Il mio cervello parte in quarta: esame delle possibili crisi, qualche amico lo avrà deriso, il sensei gli avrà gridato sul viso, ha sbagliato la verifica di scienze, la maestra lo avrà cacciato dall'aula... Boh.
Ripasso qualche frase fatta, una di quelle buone per tutte le tragedie e mi preparo al peggio: la crisi devastante con annesso pianto disperato.
Ecco. La porta dello spogliatoio si apre. Sì, è lui.
- Ehm... uomo piccolo... insomma, raccontami. Perché hai detto così, prima?
- Sono un fallito, babbo. Non riesco più... a fare la ruota.

Ma vafaaa, và.

giovedì 9 maggio 2013

Fahrenheit e i padri

Una delle trasmissioni più interessanti di Radio Tre. Dove non si conversa solo di libri ed autori e letteratura ma dove si ragiona molto anche intorno ai temi sociali, civili, culturali in senso allargato.
Una trasmissione a dir poco benemerita. Un'oasi di intelligenza, un paradiso di spunti di riflessione e di contributi sempre vivi al nostro pensare il mondo.
Fedele a questa tradizione, ieri c'è stata una conversazione assolutamente imperdibile tra la conduttrice Loredana Lipperini (qui c'è il suo blog personale, altro luogo di ottimi spunti) e due sociologhe dell'Università di Trento, Annalisa Murgia e Barbara Poggio.
La conversazione, che partiva dal libro delle docenti (qui i riferimenti), verteva intorno alla figura del padre e ai nuovi confini che essa sta acquistando, soprattutto per merito dei padri più giovani (ma non solo, aggiungo io), in questi ultimi anni.
Una conversazione per molti versi illuminante, soprattutto nell'illustrare le caratteristiche di questi nuovi modelli di paternità oppure quando si raccontava di come il congedo parentale maschile sia ancora visto un po' come fumo negli occhi da aziende e organizzazioni che già mal sopportano quello femminile. E questo spiega molto del Paese nel quale viviamo e di come i diritti delle persone siano concepiti.
Non voglio fare il riassunto perché la conversazione è reperibile in podcast e può essere ascoltata nella sua interezza. Lo merita davvero.
Qui il link, una sola avvertenza: il link reindirizza alla pagina generale dei podcast di Fahrenheit. Al momento in cui pubblico questo post la conversazione di cui parlo è in cima alla pagina e immediatamente individuabile. Se doveste capitare qui a distanza di tempo, abbiate la pazienza di scorrere l'elenco, la troverete più in basso, tra le altre. La data da cercare è quella di ieri, 08/05/2013.

venerdì 3 maggio 2013

Il mio primo fucile

Lo so, il tema è drammatico. Eppure, da anni ormai, non mi basta più praticare lo sgomento muto e il buon senso non mi ha mai consolato.
Mi interessano le domande, la muffa che soffiano via. Sono abituato a grattare la crosta del mondo col ditino, a infilarcelo anche, se necessario, dentro la piaga. Perché lo trovo necessario. Troppo importante provare a capire.
Mi sopporterete. Oppure volterete pagina.

Non sono un consumatore pacificato. Men che meno del dolore. E non mi accontento più (non l'ho mai fatto, forse, dall'adolescenza in poi...) di fioriture di candeline, fiori e peluche e folle piangenti che sempre, in casi del genere, spuntano all'improvviso sui luoghi degli omicidi.
Non li sopporto più perché sono l'incarnazione delle risposte che non sappiamo, o non vogliamo, darci. Spesso anche l'alibi per non essercele nemmeno poste, le domande.
Un fucile vero ad un bambino di cinque anni.
Certo, il dolore e la tragedia si presentano nelle nostre vite in varie forme. C'è l'ineluttabile, c'è la malattia, il destino incomprensibile. Ma ci sono spesso anche le scelte.
Le azioni educative intraprese oppure no.
I modelli abbracciati e quelli rifiutati.
I comportamenti responsabili e quelli no.
Con tutte le sfumature di grigio che ci sono nel mezzo, sia chiaro.

Qualche volta è anche questione di modelli culturali, di come educhiamo i bambini, di come li proiettiamo nel corpo sociale (quello che per Thatcher nemmeno esisteva). Perché, se la vogliamo guardare da un'altra prospettiva, la tragedia di Burkesville, Kentucky è anche l'ennesimo femminicidio. La morte in casa, dentro le pareti della famiglia: al maschio regaliamo il fucile; alla femmina una bambola o un fornello se va bene, un babydoll di pizzo nell'ipotesi peggiore.

(P.S.: li ho visti coi miei occhi completini osé uscir fuori dagli incarti di compleanno di bambine di 9 o 10 anni. E se persino Woody Allen si scherniva a regalare alla Diane Keaton adulta-dei-suoi-desideri un pagliaccetto sexy, qui e oggi non si schernisce più nessuno).

Così mi chiedo se sia più umano pentirsi o uccidere, scegliere o accorrere. Espiare le colpe in eterno o provare a capire, a riconoscersi in un evento tanto devastante? E come, se non esiste nemmeno un termine diretto per nominare la perdita di un figlio?
Cosa sarà adesso dell'esistenza futura di questo bambinetto/assassino? E cosa di questi genitori?
"Non sapevamo che fosse carico" pare sia stata la giustificazione disperata. Scusatemi, ma non sembra affatto una giustificazione. Non lo è.
E' la più atroce ammissione di colpa. Quasi una rivendicazione.

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