venerdì 30 aprile 2010

giovedì 29 aprile 2010

Cambiare aria

Se l'uomo piccolo s'aggira improvvisamente per casa trascinando (sul parquet... sul parquet!!!) una valigia più grande di lui. Se corre al suo cassetto della biancheria e comincia a tirar fuori, un po' a casaccio va detto, mutande, calzini, magliette. Se ti declama a pieni polmoni (e chi lo conosce sa quanto siano pieni!) in quali tasche della valigia ha infilato ogni cosa, con il malcelato intento di far sì che poi domani, tu adulto, sappia dove trovare quel che stai cercando. Se son due giorni che parla di Scario come di un paradiso perduto (furono le nostre vacanze al mare dello scorso anno) e chiede con costanza quando ci torniamo.
Che, secondo voi, ci sia sotto un qualche messaggio subliminale?
Va beh, allora domani tuttincampagna!

lunedì 26 aprile 2010

sabato 24 aprile 2010

Gli accessori del babbo (15): il gioco del calcio

Oggi l'aria era un po' grigia, un po' azzurra. Sembrava intessuta di fili caldi lanosi. Un tartan scozzese.
O una gabardina, come direbbero a Prato.
E tutta l'erba che c'era era verde ma verde ma verde, anche sotto le ombre, anche sotto un'arietta tesa che ti scompigliava lo stomaco, nel dopopranzo.
Un pranzo coi compagni di classe dell'uomo piccolo e rispettivi genitori. Una giornata passata a rincorrere bambini che rincorrono un pallone. Come non capitava da anni (e chissà che tante malinconie di questo periodo non siano il termometro di mie rimembranze), di sudare e ridere e capitombolare sopra una sfera di gomma, un po' sgonfia.
Una sintonia di sentimenti, un festival di sguardi, la fiera delle espressioni facciali, delle frustrazioni per aver mancato un tiro, dei bronci per un passaggio non ricevuto. Delle terribili lacrime se non ti fanno rimettere dal fondo, coi piedi, come vuoi tu mica come dettano le regole.
E le grida e le risate, e l'apprensione ogni volta che un paio di quei campioni collidevano, come stelle ad un incrocio senza semaforo, nell'universo.
"Come va"?
"Tutto bene", e si tirano sù, infrangibili. Oppure "mi fa male" e giù manfrine tanto fatali quanto fasulle. Un massaggino (altrettanto fasullo) e si rimettono in piedi.
Insomma, un giorno-bambino, un tempo d'altro tempo, quell'aria che mi sferzava il sudore sulla schiena, nel cuore. E il fiatone, quello sì per la corsa, la fatica, lo sforzo.
E abbiamo pure pareggiato.
Quanto ho riso.

domenica 18 aprile 2010

A volte càpita

A volte ci sono giorni che stanno così sospesi, come un ponte gettato tra due sponde alte. Ma alte. E il vento che lo scuote, lo fa dondolare. Tu sopra.
A volte li guardo, se fanno i compiti, tagliati (nel senso di metà dentro e metà fuori) dal cono di luce della lampada da tavolo. Oppure distesi a terra, leggere a voce alta una storia. Che le parole quasi non vengono: d'altronde, l'uomo piccolo ha appena imparato a leggere e ne ha voglia, lo fa. Ma è buffo.
A volte li accompagno (o meglio loro mi precedono saltellando sul marciapiede) ai giardini, lei coi pattini lui rigorosamente terrestre quindi a piedi, e vedo le gamberelle secche scivolare insieme ai pattini sull'asfalto.
A volte capita di passare un sabato nel delirio assoluto, tra la visita alla caserma dei pompieri, accompagnare la donna grande ad un compleanno, il pranzo da preparare (quasi nei ritagli di tempo tra una corsa e l'altra), il tornare a prendere la donna grande. E lì capita che il pomeriggio si consumi a correre su un prato o dietro un pallone da basket. O stravaccati sul sacco del salto in alto.
A volte capita di cogliere uno sguardo intimorito perché la bambina alla fine di quello sguardo è LEI e la tenerezza che c'è nello sguardo e in quel timore (di non essere all'altezza?) ti strapazza il cuore. E capisci. E ricordi quando capitava a te, ere geologiche fa, sui banchi di scuola di sentirti così inadatto. Così ragazzino che non ce l'avrebbe mai fatta.
A volte capita di ridere a crepapelle (ma a crepapelle, eh!) rotolandosi con l'uomo piccolo sul pavimento e inseguendosi tra le sedie e facendosi solletico uno con l'altro. Tanto che la tua pelle sembra il recettore dell'intero universo.
A volte capita che capitino cose un po' magiche un po' malinconiche un po' faticose. Belle. Che se capita di mettersi a ripensare com'era il mondo quando tutto questo non c'era, quasi il respiro manca. Quasi il ricordo trema. Quasi non c'era nulla, prima di essere qua.

lunedì 12 aprile 2010

Una doccia per l'eternità

Ieri mattina, ad un certo punto, li ho infilati insieme nella doccia. Quando la fanno da soli ci mettono ognuno una sana mezz'ora. In due, abbiamo ormai cronometrato, ce la fanno in quaranta minuti. Sì certo, in una doccia si consuma il fabbisogno mensile d'acqua dell'intero Maghreb ma risparmiamo almeno una buona ventina di minuti.
E, soprattutto, passano quei minuti in assoluta intimità fraterna.
Ieri mattina appunto, tra scoppi di risa e grida come rintocchi di campane domenicali (ognuno i suoi riti domenicali se li fa come meglio gli vengono), mentre ero anch'io lì con loro, ad un certo punto ho alzato gli occhi dal libro che stavo leggendo e ho visto l'uomo piccolo che, con dedizione esemplare, pettinava la zazzera alla donna grande.
Un gesto banale ma di grandiosa forza: due naccheri sotto il getto d'acqua, mezzo insaponati e ridanciani e squillanti nel loro vociare, che fanno di quello stare assieme un gesto di cura, un'affettuosità liquida.
Fratelli.
Per una frazione di secondo, la scintilla divina mi è passata tra le dita: partecipare alla costruzione di momenti che ricorderanno per tutta la vita e che magari gli torneranno in mente durante una vacanza, che so nel 2036, su una spiaggia sotto il sole oppure si racconteranno il giorno dopo il mio funerale e, razzolando la polvere sotto il tappeto accogliente della vita che continua, si diranno:
"Ti ricordi la doccia quella domenica e tu mi pettinavi"?
"Ti ricordi quella domenica che ti pettinavo sotto la doccia"?
Oppure risaliranno a galla nella vasca della memoria, separatamente e magari a migliaia di chilometri di distanza uno dall'altra, nel momento più improbabile, durante un pomeriggio dal parrucchiere o nel mentre di una passeggiata lungo il fiume.
Credo proprio che dio non esista e queste scintille divine, così profondamente umane, sono il regalo enorme che tutti noi possiamo fare a noi stessi. Noi umani.
Noi eternità.
Noi doccia.

domenica 11 aprile 2010

Primavera pixelata (all'ossido di carbonio)

Tanti anni fa, a Rupetraversa, faceva primavera in modo molto simile ad oggi: l'aria diventava tiepida, la luce era d'improvviso abbagliante e carica di profumi, sugli alberi spuntavano prima gemme e poi fiori. Colorati.
Più d'ogni altra cosa, però, quel che cambiava davvero la stagione era la possibilità, per un gruppetto di ragazzini che avevano appena finito di svernare il loro inverno chiusi in casa (al massimo parlandosi da un balcone all'altro, tanto minuscola era la distanza), di poter finalmente riprendere possesso di un piccolo terreno incolto, lì dietro l'angolo delle case, e ricominciare a rotolarsi sopra (o dentro...) un cumulo di sabbia.
Quel cumulo è stato lì per anni, me lo ricordo e lo vedo, ora, come se ce l'avessi davanti agli occhi.

Stamattina, nel teporino, siamo usciti per andare a comprare il pane. A Firenze, non a Rupetraversa.
Un percorso che facciamo quasi tutti i sabati, poche centinaia di metri nel nostro quartiere. Non attraversiamo una highway americana ma neppure troviamo, dietro l'angolo, un cumulo di sabbia. Oltre un alto muro giallo, però, a pochi passi dal portone di casa, abbiamo un giardino verdissimo, aperto (e bontà del volontario che lo tiene aperto!) solo in certi orari: un orizzonte d'avventura a tempo, un negozio del relax al fresco dei platani. Insomma, per capirsi, un po' di schizofrenia dello spazio urbano aggiornato al nuovo millennio. Quasi un ultraspazio.
Facendo il nostro solito percorso, dicevo, avremmo dovuto trovare appunto il teporino, quell'aria limpida piena di profumi, fiori colorati sui rami.
All'improvviso invece, come lo strappo che c'è tra il film che stiamo guardando in tv e l'irrompere becero della pubblicità, la nostra passeggiata ha preso il terribile puzzo del traffico sui viali, l'aria limpida è subito diventata pesante e laida, l'ossido nero di carbonio lo abbiamo respirato a fondo. Una bella spalmata sui polmoni, come una crema malefica su un pane fattosi crosta secca.

Rupetraversa ha cominciato a balenare laggiù in fondo alla memoria, col suo cumulo di sabbia, con la non-sicurezza di ragazzini che giocavano da soli in strada, uscendo, casa per casa, e trovandosi in un punto prestabilito, senza auto e anche senza adulti. Ragazzini e basta.
I miei figli quella cosa lì non potranno averla mai, una Rupetraversa, un cumulo di sabbia ghiaiosa nel quale rotolarsi, una partita di pallone in strada, stretti tra una 127 rossa restaurata con lo stucco murale e una Ritmo verderamarro che funge da palo della porta.
E segnare di sponda, senza che il proprietario della Ritmo dietro la finestra se ne accorgesse, diventava prodezza sublime.

Non voglio far finta di nulla, non mi passa nemmeno per la testa di rivangare i bei tempi andati come un eden perduto. Oggi è oggi, se c'è qualcosa che è ormai perso, tanto altro abbiamo guadagnato.
Il progresso scientifico, la tecnologia, la scienza medica che ha fatto passi da gigante. E anche il quotidiano: abbiamo suv enormi dentro i quali ci sentiamo così sicuri (tanto che investendo il malcapitato pedone non ne sentiremmo nemmeno lo schianto), centinaia di canali televisivi pieni di programmi bellissimi (che riempiono a meraviglia lo spazio tra gli spot pubblicitari), città invase di posti dove poter comprare merci, merci qualsiasi, merci di cui, spesso, non abbiamo mica bisogno.
Tutto questo progresso fantastico, tutte queste città (ormai anche Rupetraversa, là in fondo, è una città per quanto di provincia...) che sembrano errori umani ripetuti all'infinito, accumulo di fallaci illusioni sdoganate al primo condono possibile, non saranno mai così raggiungibili come quel cumulo di sabbia.
A meno di non voler inserire nell'apposito campo vuoto le parole chiave "Rupetraversa" e "cumulo di sabbia": Google Earth potrebbe fare il miracolo di ritrovarli. O no?

Parterre

Nella foto il parterre di Parma, al meeting di Confindustria.
Non male, eh?

venerdì 9 aprile 2010

A cena con l'autore

Dopo il lancio alla Fiera di Bologna, ormai se ne parla un po' dappertutto.
Su Facebook impazzano le notizie. Si parla già delle prime presentazioni.
Poi qui e anche qui.
L'entusiasmo dei fan cresce.
Beh.
Invidia, invidia a piene mani per tutti: io ho fatto di meglio!
Sono stato a cena con l'autore.
Cioè, non era mica un tête à tête, eh: c'erano anche il marito e i bambini, dell'autore. E anche i miei, moglie e bambini, a dire il vero.
Così, del viaggio a Roma, oltre ai monumenti i pargoli si ricordano anche... della mamma di Federico e Giovanni, "quella che scrive i libri"!
Però la dedica e l'autografo, quelli devono essere davvero i primi. Chissà?
Eccoli (e in bocca al lupo ad Anna, ad Amelia e anche a zio Gatto):

giovedì 8 aprile 2010

Ogni giorno

L'ho detto subito, all'inizio.
Poi l'ho ripetuto tante e tante volte.
"Non si parla molto di padri, di paternità".
Decine di manuali, siti, parole, direttive e chiacchiere sulla maternità. L'essere madre.
Non ne capivo la chiave: perché i padri così meno?
Comunque, sapevo che stava per uscire, è il mio mestiere...
Michael Chabon non è un esperto, un pediatra, un pedagogista o che so io.
Michael Chabon è, soltanto, uno scrittore.
Poi, certo: ha una moglie e anche, casualmente, quattro figli.
E vive pure a Berkeley! (Uno che vive a Berkeley mi sta sul culo di default. A voi no?).
Così non sapevo se lo avrei letto.
Ieri è uscito, a sera l'ho rigirato a lungo tra le mani.
L'ho aperto, ho sbirciato.
Alle pagine 16 e 17 (sì, la frase sta a acavallo tra le due pagine...) ho letto: "Un padre è un uomo che fallisce ogni giorno".
Beh, geniale.
Ho deciso che lo leggo.
Perché, che culo!, un padre è un uomo che fallisce ogni giorno.
Lo sa.
Lo sapeva anche prima.
Eppure, lo ha fatto lo stesso.

mercoledì 7 aprile 2010

Lasciate che i bambini...

"Aprile è il più crudele dei mesi".
Malgrado la suggestione letteraria, o proprio per seguirla, vorrei lasciare una riflessione, fatta con le parole di un giornalista: secondo me, parole senza polemica e senza "pruriti" politici.
Una riflessione, appunto, che sappia magari suggerirci delle domande o delle considerazioni su quello che accade, da decenni (da sempre?), in certe chiuse stanze.
Chiuse dai muri.
Chiuse dal silenzio, dall'omertà.
(L'articolo è uscito ieri, in prima pagina, su il manifesto).



Marco d’Eramo
L’autogol del Papa

«Ma hanno perso la brocca?» mi chiede preoccupato un amico, cattolico praticante. È una domanda che molti credenti si pongono davanti alle uscite del Vaticano - sempre più scomposte e più autolesioniste - sullo scandalo della pedofilia ecclesiastica.
Riepiloghiamo: mercoledì 31 marzo il più eminente esorcista vaticano, padre Gabriele Amorth, afferma a Mediaset News che sono stati «dettati dal demonio» gli attacchi contro il pontefice del New York Times - cioè di uno dei più prudenti e sussiegosi organi di stampa al mondo -, fornendo così un impareggiabile assist alla columnist di quel quotidiano, Maureen Dowd: il Vaticano «ha bisogno di un sessorcista più che di un esorcista». Il 2 aprile, nell’imponente decoro della Basilica di San Pietro, davanti a papa Benedetto XVI, nella sua omelia del venerdì santo padre Raniero Cantalamessa, compara l’attacco «violento e concentrico» contro la Chiesa e il papa agli «aspetti più vergognosi dell’antisemitismo»: si può immaginare la reazione di ebrei che vedono paragonare un odio razziale sfociato nello sterminio di 6 milioni di correligionari con una campagna contro abusatori di bambini. Il Vaticano ha poi cercato di correre ai ripari parlando di un’opinione personale di Cantalamessa, ma il predicatore della Curia non avrebbe mai sostenuto quella tesi se l’avesse ritenuta invisa al pontefice. Infine domenica 4, appena prima della messa pasquale, il decano del collegio cardinalizio, Angelo Sodano, in un augurio (senza precedenti nella liturgia cattolica) ha detto a Joseph Ratzinger: «È con lei il popolo di Dio, che non si lascia impressionare dal ’chiacchiericcio’ del momento». Il «chiacchiericcio» in questione è talmente «irrilevante» che appena la Chiesa cattolica tedesca ha istallato un numero verde per raccogliere le denunce di molestie pedofile, il centralino è stato sommerso da più di 4.000 chiamate. Mai si era vista una tale serie di autogol. Ma quel che più spaventa i cattolici è la glaciale indifferenza nei confronti delle vittime molestate. Prelati e cardinali sono tutti impegnati a difendere l’onorabilità della Chiesa, la credibilità del clero, a salvare il papa dalle «maligne insinuazioni», ma mai che si senta - per lo meno a Roma - una parola di affetto, una briciola di simpatia, un partecipare, per quanto ritardato, al dolore di coloro che furono bambine e bambini o adolescenti quando erano abusati da persone adulte che avrebbero dovuto trasmettere la parola di Dio e invece... A reverendi e monsignori delle vittime degli abusi sembra non importare nulla.
Come mai? Si possono avanzare due ipotesi. La prima riguarda la civiltà della comunicazione di massa, alla cui creazione la cultura ecclesiastica è sempre rimasta estranea e implicitamente ostile, col risultato di trovarsi disarmata, di non sapere proprio che pesci prendere. In fondo è la prima volta che la Chiesa si trova presa di mira, bersaglio dei mass-media di tutto il mondo. Ed è culturalmente impreparata a reagire.
Con eccezioni rarissime, nell’ultimo secolo il Vaticano non ha mai maneggiato bene i mass-media: d’istinto, di pelle più che di ragione, solo Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II furono grandi comunicatori, e solo Joaquín Navarro Valls fu un buon Pr (public relations), prontamente cacciato da Benedetto XVI. Non c’è dubbio, la Chiesa avrebbe disperato bisogno di consulenti per gestire questa crisi.
Ma la crisi non è solo mediatica e neanche Navarro Valls potrebbe molto in questo frangente. Il problema infatti è più profondo: va molto al di là del celibato dei preti spesso addotto in questi giorni (i casi di pedofilia sono assai frequenti anche presso i pastori protestanti, pur sposati). Attiene alla concezione stessa del peccato e della sessualità nella Chiesa cattolica. Noi, e la nostra vituperata «liberazione sessuale», consideriamo la sessualità un’attitudine naturale e riteniamo il sesso fondamentalmente «buono». Anzi consideriamo che reprimerlo è nocivo. Proprio per questo, per noi c’è un abisso tra pedofilia e sesso consenziente: è il baratro che separa una libera scelta da un vero e proprio stupro, anche quando si presenta senza coercizione fisica, in quanto imposto a chi non è in grado di argomentare e difendere il proprio dissenso.
Del tutto agli antipodi è la visione della gerarchia cattolica: per lei il sesso è fondamentalmente peccaminoso, solo (parzialmente) redento dalla funzione riproduttiva. Fare l’amore senza altro scopo che fare l’amore è sempre male, è un peccato mortale. L’amore con adolescenti o infanti è peccato forse un po’ più grave, ma non qualitativamente diverso: sempre alla dannazione eterna conduce. Come nella concezione puritana (compresa quella protestante), il sesso coi minori è solo una gradazione più fosca del demoniaco, nello stesso modo in cui anche l’omosessualità è un’aggravante «contronatura». Ecco perché la gerarchia cattolica letteralmente non capisce come mai la pedofilia ecclesiastica c’indigna tanto. Si spiega così la curiosa argomentazione del cardinal Ruini, secondo cui la pedofilia sarebbe stata istigata nei preti dalla «liberazione sessuale»: circondati dall’oscenità tentatrice dei media, delle carni discinte e svergognate per strada, i preti cadrebbero «in tentazione» (come dice Gabriele Amorth).
Ruini, e con lui tutta la gerarchia, non vede che è successo esattamente il contrario: la pedofilia è sempre esistita, ma prima, in una società puritana, era equiparata alle altre trasgressioni, alla masturbazione, al sesso extramatrimoniale, e perciò non faceva tanto scandalo: era coperta dalla stessa cappa d’ipocrisia e quindi abbuonata con la stessa indulgenza. La pedofilia è diventata uno scandalo insopportabile solo quando il velo dell’ipocrisia è stato sollevato, quando la sessualità è stata (in forme pur discutibili) liberata e quindi la pedofilia si è rivelata per quel che è: un abuso
ingiustificato e ingiustificabile. Solo a questo punto la pedofilia è diventata per la nostra civiltà il male assoluto, l’equivalente laico del demoniaco.
Per capirlo, la Chiesa di Roma dovrebbe compiere una rivoluzione, ribaltare l’atteggiamento verso la sessualità e - ancor più nel profondo - la corporeità. Ma se non lo fa, rischia di pagare un prezzo salatissimo: perché – parliamoci chiaro - questo scandalo porta la crisi nel cuore della dottrina, mette in discussione il sacramento della confessione. Se la Chiesa deve denunciare alla magistratura il prete che confessa la propria pedofilia, allora la confessione va gambe all’aria come sacramento; se invece non lo fa, la Chiesa viene schiantata come complice dei pedofili, che copre i misfatti dei suoi.
Il Vaticano si trova perciò in una posizione oggettivamente difficilissima. Ma non ne esce atteggiandosi a vittima di persecuzioni mediatiche: questa crisi è l’esito di secoli di divaricazione crescente tra la morale del comune sentire e la morale della dottrina. È inutile gridare ai complotti. Mentre è patetico, persino comico, chiedere ai preti di «essere angeli», come ha fatto ieri Ratzinger.

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