domenica 31 gennaio 2010

Del costo sociale degli scrutini

Invece di incaponirsi a voler riformare la scuola a tutti i costi (l'abbiamo bell'e capito che sull'argomento non ci capisce nulla... ma proprio nulla), il ministro Gelmini dovrebbe commissionare una ricerca sull'impatto degli scrutini nella vita delle famiglie italiane.
Almeno di quelle che contengono al loro interno un insegnante. Una profe, insomma.

Se si trattasse di una parte molle (che so, l'intestino), la si potrebbe definire "non-trattabile": nei due periodi dell'anno in cui gli scrutini si abbattono su di noi, la profe è praticamente un ectoplasma.
Se le rivolgi la parola, ti risponde in decimi (come se ti stesse mettendo il voto...); se le chiedi di uscire insieme, ti urla dietro formule astratte; se le parli del film che vorresti andare a vedere, ad esempio "Soul Kitchen", ribatte che "ormai dovresti averlo imparato, i film horror io non li sopporto".
Horror?!
Insomma non recepisce.

Sulle grandi figure di riferimento culturale, siamo passati all'improvviso da Lifšic e Landau a Benedetto Vertecchi, con tanti saluti agli studi d'una vita. E se Dio e Marx sono morti, anche il povero Einstein ormai non se la passa più tanto bene: dalla fisica teorica alle schede di valutazione, il passo è stato brevissimo.
Un baratro.
Insomma, se la settimana è il delirio dei tempi contingentati, il fine settimana diventa momento da separati in casa. Se la profe sobbolle sotto la lampada da tavolo e tira freghi di penna rossa che sembrano confini di Stato, il sottoscritto si dedica al resto: coi pargoli ai giardini, coi pargoli alle mostre, coi pargoli in gelateria, coi pargoli al cinema.
Coi pargoli in cucina a spadellare qualcosa di almeno lontanamente edibile.
Tanto che arrosto di maiale e patate al forno stanno diventando la mia specialità. Vuoi vedere che, persa una moglie, ci guadagno un mestiere?! Di questi tempi, forse è meglio trovarsi tra i piedi un secondo lavoro...
Tanto, per recuperare la moglie c'è sempre tempo.

martedì 26 gennaio 2010

Geografia

La geografia l'ho sempre adorata, da bambino. Non la complessità di un mondo senza più confini che vivo oggi da adulto, ma la cara vecchia "nozionistica": capitali, Stati, fiumi e confini. Persino le bandiere delle nazioni del mondo. O le regioni italiane.
Ricordo i vari atlanti che scartabellavo e me li ricordo soprattutto pieni di colore. Per le immagini, per le bandiere stesse, per le carte variopinte a seconda di cosa rappresentassero.
Devo a quel modello di insegnamento il mappamondo mentale che mi porto dietro ancora oggi.

La modernizzazione in Italia fa più danni di una piaga biblica e la "riforma" (si fa per dire) Gelmini colpisce ovunque. In questi giorni, nella scuola elementare dei pargoli, col Comitato Genitori, stiamo toccando con mano la vera e propria devastazione dovuta ai tagli di bilancio che il Governo ha imposto alle scuole pubbliche: il dramma, vi assicuro, è profondissimo.

Ora, hanno ben deciso di affossare anche la geografia (parlo di riforma delle scuole superiori, la notizia qui - invece qui c'è un ulteriore approfondimento).
Ebbene, l'associazione dei geografi italiani si è, vivaddio!!!, inalberata e invita a firmare una petizione per salvare la materia dalle grinfie della riforma.
Io l'ho già firmata.
La petizione è qui.

lunedì 25 gennaio 2010

Quarto d'ora

Sarà che qualcuno mi sopporta on line da più di un anno, ormai.
Sarà che un quarto d'ora (via, anche venti minuti...) di celebrità non si negano nemmeno alla Carfagna.
Sarà che Riccardo di Bravi Bimbi è curioso e si è messo di buzzo buono a conversare con questi soggetti (strani, eh?!) che tengono blog di mammità e babbitudine.
Sarà che insomma ha voluto anche me.
Insomma, per gli amanti dell'horror de paura, sono finito anche qui.
Contento, eh!
E ancora grazie, a Riccardo.

domenica 24 gennaio 2010

Coscienza e palette

Una domenica davvero rilassante per babbo e pargoli (la profe a corregger compiti...) a giro per la città pedonale, tra mostra a Palazzo Strozzi, merenda al bar e poi in gelateria, nel magico mondo di Grom.
Ebbene sì: due tappe e doppie calorie.

Soddisfacente anche perché il livello di auto-coscienza pargolistica cresce di giorno in giorno.
Come altro giudicare la definizione che l'uomo piccolo ha saputo dare di se stesso?: "Perché sono proprio un rompitore di palette".
Così si è espresso: e se non vi fate ingannare dalle apparenze, vi lascio alle possibili interpretazioni...

giovedì 21 gennaio 2010

Addendum

Stamattina, dopo una nottata in ambasce (passata russando come un mantice) per via della triplice punizione di ieri (triplice divieto: no tv, no computer, no album delle figurine), stamattina, dicevo, l'uomo piccolo si è presentato strisciando in bagno (sempre in bagno vengono, quando devono chiedere...) con tono lamentoso.
"Babboho........." lungo sospiro, a occhi bassi sul pavimento, non sapeva come cominciare.
Poi ha preso (un certo) coraggio, ha inspirato e l'ha detto: "certo proprio tre punizioni sono troppe, bastavano almeno due, eh!".

Sperava il babbo crollasse, distrutto dall'amalgama tra intenerimento e senso di colpa.
Il babbo, invece, ha resistito.
E stasera la profe ha aggiunto un'altra mezza giornata: fino a domattina ancora la triplice...
Ci divertiamo, noi sadici.

mercoledì 20 gennaio 2010

Al ristorante

Stasera, per punizione, niente tv, niente giochi al computer e niente figurine da appiccicare all'album.
Toccava mettere in moto la fantasia.
I pargoli si sono chiusi in camera e rumori sinistri si sentivano da dietro la porta. "Cosa fanno, smontano il letto a castello?", si dicevano i genitori inquieti.
Dopo un certo trafficare, l'uomo piccolo salta fuori e annuncia giulivo, urbi et orbi, che il ristorante - "il nostro ristorante giallo" - avrebbe aperto di lì a breve.
Quando ci hanno fatto sedere e ci hanno dato il menù (a ognuno la sua copia manoscritta...) non ho resistito: in cima alla lista c'erano gli HODDOGH........ Non ce l'ho fatta, ne ho ordinati una vagonata, di hoddogh.
Poi però per contorno ho evitato il cavolo, ho optato per più leggeri pomodori.
E quando la donna grande, che prendeva le ordinazioni, mi ha chiesto dubbiosa come si scrivesse hoddogh non ho saputo resistere, per la seconda volta: "ma si scrive H-O-D-D-O-G-H, mia cara!!!".
Voi sareste stati crudeli???
E la fantasia aguzza l'ingegno e il buonumore: andrà mica a finire che le punizioni fanno bene?!

lunedì 18 gennaio 2010

L'intervista a Zoja

Ne avevo anticipato qualcosa qui.
Ora finalmente sono riuscito ad avere il testo dell'intervista. Devo ringraziare di questo il giornalista che l'ha realizzata, Daniele Balicco, che è stato così gentile da inviarmi il file e darmi la possibilità di postarlo qui sopra.
E' un'intervista un po' lunga (e tra l'altro, come vedrete, è solo una parte) ma vale senz'altro la pena leggerla, leggerla attentamente e rifletterci su.
A mio parere ci sono tanti, tantissimi spunti. Buona lettura!


Luigi Zoja
L’eclissi dei padri
Intervista a cura di Daniele Balicco

[La versione integrale di questa conversazione sarà pubblicata nel numero 61 della rivista «Allegoria»]

Per iniziare questa nostra conversazione sulle forme ambivalenti dell’identità maschile, le chiederei di descrivere anzitutto la qualità peculiare che la differenzia dalla sua identità opposta, quella femminile.
Premetto che la tesi che sosterrò deriva da letture di grandi scienziate, su tutte l’antropologa americana Margaret Mead e poi Helen Fischer. In poche parole la tesi è questa: per cercare di ricostruire a tutti i livelli zoologici dell’evoluzione cosa possa essere definito ereditato, istintivo, zoologico, vale a dire appartenente a noi in quanto corporeità animale, e cosa invece elaborato dalla cultura, si vede facilmente che esiste una continuità del naturale nel femminile. Anche solo per la simbiosi tra la madre e il piccolo. Per questa ragione si può sostenere abbastanza facilmente che l’elemento materno è istintuale prima che culturale. Ed è un elemento molto profondo soprattutto a partire dai mammiferi che compaiono sulla Terra circa 250 milioni di anni fa. Questa generalizzazione non vale, per esempio, se osserviamo i volatili, dove è molto frequente un nucleo monogamo familiare che per molti aspetti anticipa il nostro. Ma tornando a noi, nel corso dell’evoluzione è possibile riscontrare che i mammiferi specializzano il rapporto madre/figlio e non invece il rapporto paterno. Qui possiamo iniziare ad introdurre l’ambivalenza fondamentale dell’identità maschile: quella di padre e quella di maschio fecondatore. La natura ha predisposto nel maschio solo la capacità di fecondare la femmina, non veramente quella di accudire e proteggere la prole. I mammiferi generalmente conoscono il maschio genitore, ma non il padre, parola che va usata intendendo l’elemento culturale, perché deriva da una radice indoeuropea /pa/ che indica nutrizione, quindi prendersi cura in modo continuativo, che nei mammiferi è un attributo solo delle madri. Anche avvicinandoci alla specie umana, nei mammiferi più sviluppati, continua questa funzione del maschio genitore senza un rapporto diretto con la sua prole. Poi c’è un salto. Perché se uno inizia a studiare le società umane più semplici, tanto quelle antiche quanto i cosiddetti fossili antropologici, troviamo subito la comparsa del ruolo paterno, vale a dire del maschio che riconosce la propria discendenza e la protegge. Questa è l’invenzione del padre, dunque non un semplice genitore biologico, quanto una figura impegnata nella protezione e nella crescita dei piccoli. Per questa ragione, come sostengo nel Il gesto di Ettore, sono convinto che la paternità è fondamentalmente un’adozione. Sono necessarie intenzione e consapevolezza. Il diritto romano le codifica in un rituale: il padre deve innalzare il figlio verso l’alto e così lo adotta. Quello che è dunque sorprendente, se uno segue l’evoluzione dei mammiferi, è che è proprio questo il salto che differenzia la specie umana, l’invenzione di un nucleo monogamico stabile che assegna al maschio una funzione paterna.

Quali sono le figure mitiche che meglio rappresentano, secondo lei, i pericoli e i poteri del maschile non paterno?
Anzitutto il ciclo di Troia. In Omero quello che viene rappresentato è proprio il conflitto fra la storia di questo recente incivilimento e la possibilità di un suo fallimento. Da una parte, infatti, abbiamo la rappresentazione della guerra fra maschi per il possesso di un’unica donna. La prima grande guerra “mondiale” dell’Occidente si svolge tutta per il possesso di Elena. Si interrompe la vita quotidiana di un intero popolo, tutto è sospeso, per una guerra assurda e lunghissima. Per questa ragione, il duello centrale, quello fra Achille ed Ettore, è emblematico: Ettore, infatti, a differenza degli altri guerrieri viene rappresentato anche come padre e come marito. E’ già una figura complessa, mentre Achille, e tutti gli altri Greci, sono solo guerrieri maschi. Se si fa attenzione a come sono rappresentate le armature dei guerrieri greci è interessante notare che sono pensate più per intimorire lo sguardo dell’avversario, che per l’utilità pratica nel combattimento. Certe vestizioni, come insegnano molti etologi della zoologia umana, come Irenäus Eibl-Eibesfeldt, sono semplici prolungamenti del comportamento animale. In tutto il ciclo troiano, dunque, viene messa in scena questa lotta fra l’istinto maschile e la scelta paterna; e anche l’Odissea ruota intorno a questo problema. Per esempio, lo scontro fra Ulisse e il Ciclope, tutta forza fisica esterna il secondo, tutta intelligenza il primo; ma soprattutto la vittoria di Ulisse contro i Proci. Del resto, la figura di Odisseo è molto complessa, è un padre che pensa sempre al suo ritorno, eppure si lascia tentare da altre figure femminili e dalla sua curiosità esplorativa dello spazio.

Spostando lo sguardo velocemente sulle figure femminili, forse si può notare che anche Penelope è l’esito di questa rivoluzione monogamica, assediata dalla regressione zoologica. È molto diverso, infatti, il suo femminile, da quello di Calipso, di Circe o delle sirene, tutte figure che vengono rappresentate come tentatrici e pericolose proprio perché foriere di regressione verso un maschile pre-paterno.
Mi sembra un’osservazione intelligente. Penelope è una figura di femminile materno, fedele al marito e alle generazioni. L’atto di tessere la tela è simbolico, si lega alla continuità delle generazioni perché quello che fa e disfa è il mantello in cui verrà avvolto il corpo di Laerte, una volta defunto. Ed è un atto bellissimo e anche impressionante, se uno ci pensa: testimonia come la presenza della morte e del negativo sia vissuta come elemento costitutivo della vita quotidiana. Se pensiamo, viceversa, a come la società moderna censura e cancella la morte, che viene, infatti, sbrigata come disgrazia affidandola ad un meccanismo commerciale predisposto, la differenza è quella di un vero e proprio capovolgimento. La rimozione è totale.

Uno dei miti su cui lei sta lavorando, e che mostra molto bene l’ambivalenza dell’identità maschile, è il mito dei Centauri.
Un anno fa, mi è capitato di vedere al Louvre delle metope e dei bassorilievi greci raffiguranti un gruppo di Centauri che rapiva donne Lapite. Non mi ero mai interessato alla figura del Centauro, ma, come è subito evidente, il suo significato fa proprio al caso nostro. La mitologia dei Centauri non è estesa, le fonti sono soprattutto romane: Le Metamorfosi di Ovidio, anzitutto. Poche le testimonianze greche. Quello che emerge è che sono un popolo intero maschile – solo in pochissime fonti viene rappresentata anche una “centauressa” – che conosce il rapimento come unica relazione con il sesso femminile. Del resto, la loro rappresentazione scissa, metà umana nella parte alta del corpo e metà animale in quella bassa, significa per immagini quello che poi dice il mito: il maschile non riesce a staccarsi dalla sua natura animale, non riesce a completare la propria umanizzazione. E non a caso è la parte inferiore che è animale, quella legata alla parte riproduttiva. Per altro, mi sento di poter sostenere che c’è una strana anticipazione nel mito di alcuni fenomeni attuali degenerativi. Penso alla gang rape, la violenza di gruppo. I Centauri conoscono solo questo tipo di sessualità di gruppo e sono, ed è molto interessante, sempre ubriachi, privi di coscienza.

I Centauri testimoniano dunque, attraverso il mito, della continua possibilità per la nostra specie di una regressione verso un maschile animale, non paterno?
Credo che la questione sia più complicata. Sarebbe, infatti, una semplificazione sostenere che i Centauri rappresentano una pura regressione animale, perché, in realtà, non esiste in nessuna specie animale questa pratica sessuale di gruppo violenta. A questo proposito, va riutilizzato un concetto famoso di Erik Erikson: il concetto di pseudo-speciazione. L’essere umano è l’unico animale che commette l’assassinio interspecifico in modo regolare. Solo alcuni tipi di scimmie e di felini lo fanno, ma in casi estremamente eccezionali. L’essere umano, invece, tranquillamente uccide suoi simili perché l’altro non viene più percepito, come negli animali, appartenente alla stessa specie. L’uomo riconosce i propri simili attraverso lingua, cultura, vestiti e non, per esempio, attraverso l’olfatto, come fanno in genere gli animali. Quando si parlano lingue troppo diverse, ci si veste in modo troppo diverso, si può percepire l’altro come non appartenente alla specie. E questo fa cadere l’inibizione ad uccidere. Questa è la pseudo speciazione, un fenomeno culturale che rompe l’istinto e che quindi ci fa molto più distruttivi. Quando si decostruisce l’aspetto maschile civile, quello del padre, si costruisce una pseudo-speciazione che separa maschile da femminile. Nella gang-rape l’uso indifferente di violenza estrema accompagnato da atti di sadismo e talora perfino dalla morte della vittima descrive una modalità di relazione dove il femminile viene percepito come qualcosa di talmente diverso da permettere la caduta dell’inibizione ad uccidere. Allo stesso modo di come cade l’inibizione ad uccidere un popolo diverso.

Esistono, secondo lei, episodi storici che possono essere interpretati come prime anticipazioni di questa riattivazione inquietante del mito dei Centauri?
Il più grosso episodio storico di stupri di massa è quello dell’Armata Rossa, in Germania, nel 1945. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, fu dato il via libera ai militari sovietici di violentare le donne tedesche. Purtroppo, ha ragione Jung quando sostiene che combattere troppo un nemico può far diventare simili al nemico stesso, perché la brutalità con cui i militari sovietici hanno terrorizzato e stuprato le donne tedesche non ha nulla da invidiare alla pratiche naziste. Se si pensa inoltre che l’Armata Rossa non dava licenze di alcun tipo, questo significa che la stragrande maggioranza dei militari era costituita da ragazzi che combattevano ininterrottamente da quattro anni di fila, visto che la guerra era cominciata nel giugno ’41. Non è difficile capire come questi giovani fossero ormai abituati ad una tale distanza dal femminile da percepire le donne come qualcosa di assolutamente altro, anche perché appartenenti ad un popolo diverso e nemico. Di nuovo, un caso di pseudo speciazione. Ed è qualcosa che si è rivisto, per esempio, negli stupri etnici in Ex-Jugoslavia ed è ora diffusissimo soprattutto in Africa, nelle zone uscite da devastanti guerre civili, come la Liberia, la Sierra Leone o le zone ad est del Congo. Battaglioni costituiti da ragazzi giovanissimi, a cui viene dato un kalashnikov in mano e che si abituano a combattere ed uccidere fin da piccoli, una volta cresciuti, e magari ormai disarmati, danno vita a bande di maschi atte allo stupro di massa. Sono ragazzi che hanno conosciuto la violenza come unica modalità di relazione con l’altro; in questo caso, il femminile. Eppure tutto questo accade anche nel nostro ricco Occidente, dalle periferie alle scuole ricche del centro. Si pensi ad un caso di qualche mese fa: una banda di adolescenti ricchi ha isolato una ragazza che è stata poi stuprata a turno da tutti, per ore. La cosa impressionante è che, una volta interrogati, questi giovani non provano alcun senso di colpa per quanto commesso. E questo è davvero sconcertante, vista la facilità con cui oggi, in un Occidente laico e consumista, è possibile avere relazioni e rapporti sessuali con chiunque e di qualunque tipo. Il problema è dunque culturale: e può essere visto come la riattivazione, nell’inconscio sociale, del mito dei Centauri. Chiamiamolo, per comodità, centaurismo. Si tratta dunque di un maschile violento che mette in atto possessioni di gruppo simili a quelle che i trattati di psichiatria – penso per esempio a quello scritto da Jasper - chiamano “epidemie psichiche”.

Esiste, secondo lei, un rapporto fra crisi della funzione paterna e ritorno dei Centauri?
Credo proprio di sì. Quello che impressiona è la fragilità individuale nascosta sotto queste pratiche di gruppo violente. Fragilità che negli ultimi anni è aumentata soprattutto a causa della disattivazione della funzione paterna. Non intendo, naturalmente, la funzione paterna in senso letterale, la presenza fisica di un maschio adulto. Ma di quello che chiamerei qualità paterna nell’educazione, qualunque sia la forma di famiglia vissuta. Penso alla capacità di dire no, di porre dei limiti, di creare un’economia mentale volta al risparmio delle energie psichiche nell’immediato in virtù di un progetto, di una preparazione di futuro, di una gratificazione differita, ma più intensa e proficua. La qualità psicologica del paterno non coincide soltanto con una visione derivante da una diffusa banalizzazione del freudismo, per cui il padre è l’elemento castrante, il famoso complesso di Edipo. Ricordiamoci che non è l’unico modo possibile di interpretare il paterno. È un mito sicuramente interessante quello di Edipo, insieme però a moltissimi altri miti che descrivono altre qualità e altre prerogative della funzione del padre: in particolare la figura di Ettore. Se i Greci ne hanno usati tanti, lo possiamo fare anche noi. Non pretendiamo dunque da quel racconto l’unico modo possibile dell’essere paterno. Si può, per esempio, essere padri spiegando le ragioni del no, motivando la necessità della rinuncia in vista di un progetto e di una gratificazione maggiore. Non per forza l’interdizione deve essere implicita, sadica, castrante. Può essere spiegata e diventare ragionevole.


Luigi Zoja, già presidente della IAAP, l’associazione che raggruppa gli analisti junghiani nel mondo, ha lavorato a Zurigo, New York e Milano. I suoi lavori, scritti con un stile elegante di rara limpidezza, descrivono ed interpretano, attraverso lo studio del mito, i pericoli regressivi, le aberrazioni culturali e le patologie sociali del nostro tempo. I suoi libri sono tradotti in quattordici lingue. Fra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: Nascere non basta. Iniziazione e tossicodipendenza (Cortina, Milano 1985 e 2003); Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre (Bollati Boringhieri, Torino 2000); Giustizia e Bellezza (Bollati Boringhieri, Torino 2007); Contro Ismene. Considerazioni sulla violenza (Bollati Boringhieri, Torino 2008); La scomparsa del prossimo (Einaudi, Torino 2008).

sabato 16 gennaio 2010

Flat Stanley

Sapevamo che era difficile, Flat Stanley è partito proprio da qui, da Firenze, per il suo giro intorno al mondo e Mammagiramondo non si era sottratta: "sono proprio curiosa di vedere Stanley in vacanza nella... sua città" era stata l'ironica sfida.
E, nel mezzo, c'erano anche le vacanze di Natale. Insomma tutti gli ingredienti per provare a fare del nostro meglio.
Firenze, città vetrina che tutti conoscono, scorci e foto visti decine e decine di volte.
Difficile essere originali.
Così abbiamo pensato ai luoghi del nostro immaginario quotidiano, nel quartiere, oppure a quegli scorci che frequentiamo normalmente, fuori dalle rotte turistiche. Comincia il "viaggio".

Questo giardino lo conoscono davvero in pochi (turisti come mosche bianche...) perché è ben protetto dietro un alto muro di cinta. E' il giardino di Borgo Pinti: un'oasi incredibile (in pochi metri quadri c'è persino una collinetta e tante siepi dietro le quali nascondersi) dove tutto è verde, rigogliosissimo e silenzioso. Lo stacco dai rumori della città (i viali di "circonvallazione" sono a poche decine di metri) è impressionante: tanta pace va goduta in compagnia di un buon libro oppure, almeno i pargoli, scorrazzando qua e là senza rischi.

E prima di ripartire, un po' di riposo...



Fatti pochi passi, la scena cambia: lo spazio è ottocentesco, l'atmosfera vagamente parisienne. Siamo in Piazza D'Azeglio, il nostro parco giochi incastonato tra le lamiere dei suv: quartiere della Firenze Capitale, oggi residenza lussuosa e, appunto, incistata di automobili. Una delle tante contraddizioni delle nostre città: pur di avere parcheggi fin sotto il portone di casa siamo disposti a snaturare qualsiasi cosa, anche una splendida piazza e il suo innegabile fascino.



Un paio di spinte in altalena e...






...prima di andarcene, passiamo di fronte alla Sinagoga (la si intravede laggiù, dietro la cancellata).

A dire il vero, la permanenza di Stanley a casa nostra ha goduto di un evento particolarmente eccezionale: la neve a Firenze!!! Capita davvero di rado (una, al massimo due volte in un decennio) che nevichi qui in città: Stanley, come noi, non stava più nella pelle. Per festeggiare ha pensato bene di fare un giretto sui tetti.


Il Capodanno l'abbiamo passato sull'Amiata. Stanley, naturalmente, è venuto con noi ma si è annoiato da morire: non faceva altro che piovere, siamo stati parecchio in casa. Nell'unica giornata davvero stupenda ne abbiamo approfittato per fare una escursione in un posto un po' magico, una cima collaterale che si chiama monte Labbro. Un posto così...



...e quello che luccica laggiù in fondo è il mare con l'arcipelago toscano!

Quando siamo tornati in città era ormai ora che Stanley ripartisse per la sua meta successiva. Prima di salutarlo però abbiamo pensato bene di portarlo a vedere un altro dei luoghi che noi amiamo in maniera particolare, per tanti motivi. Anche questo è un giardino anzi un piccolo parco adagiato sul declivio di una collina. Anch'esso poco conosciuto, ricorda in qualche modo Parc Güell (sì, quello di Barcellona) per le decorazioni delle scale e, soprattutto, per questo fantastico serpentone...
...che striscia giù dalla collina e finisce in maniera spettacolare, come un drago che invece di sputare fuoco... sputa acqua, come una fontana che si rispetti deve saper fare. Ah!, a proposito: il giardino si chiama Orti del Parnaso.



Alla fine, ci siamo: Stanley ci ha salutati tutti, uno per uno. Era ora di riprendere il viaggio. La donna grande, animo sensibile e un po' appartato, senza che nessuno di noi se ne accorgesse, ha lasciato un ricordo sul passaporto che accompagna Stanley. Per fortuna che ci ho buttato uno sguardo prima di reinfilarlo nella busta. Ecco cosa c'era...


Insomma, la donna grande è stata un po' la sua accompagnatrice e da quello che scrive è stata contenta di esserlo. L'uomo piccolo ha partecipato un po' in disparte (non lo si vede nelle foto ma c'era anche lui...) e tutti siamo stati contenti di aver accompagnato Stanley durante le vacanze nella... sua città.
Speriamo di aver vinto la sfida di Mammagiramondo e di averla sorpresa.
Chissà.
Dopodiché... buon viaggio, Stanley! A presto...

martedì 12 gennaio 2010

Calendari virali

La prima volta è comparso qui.
Scaricabile.

Poi la cara Piattini Cinesi, star mediatica del web, ha pensato a noi suoi fedeli amici nonché adepti e ci ha inviato il file via mail.

Nel frattempo, però, mi ero già premunito e quindi vi mostro in anteprima come sta sulla mia scrivania.


Trecentosessantacinque giorni di Invasioni Piattiniche...
Ce la faremo?
Certo che ce la faremo.
E, per cominciare, l'abbiamo aperto su gennaio...

lunedì 11 gennaio 2010

Bon voyage... Eric



L'ho scoperto tardi, con "Il raggio verde".
Nei tristi anni Ottanta, per me quel film fu letteralmente una folgorazione, una luce, un raggio cosmico nel mistero dell'orizzonte. A quasi vent'anni cominciava di nuovo la mia educazione sentimentale, alla vita, al mondo. Devo a lui, a quel film e a tutti gli altri che ho recuperato, visto e rivisto, la mia passione per il cinema: un folle amore giunto già adulto. Adulto io e adulto anche il sentimento. Non l'ho più abbandonato.
Per me il cinema è sempre stato Eric Rohmer.
Ogni suo film è stato un pezzo della mia formazione: non ho sognato sui grandi classici della fantascienza ("Blade Runner"?) o sui western o sui più-o-meno classici americani. Io ho sognato sulla vita, sui dialoghi interminabili, sulle inquadrature classiche ed impeccabili ma al tempo stesso quasi artigianali dei suoi Six Contes Moraux o delle Comédies et Proverbes: il gusto della bellezza (titolo del suo più importante contributo critico), che non lo ha mai abbandonato.
Per me Rohmer è stato il più anti-moderno dei grandi maestri, non per nulla la Nouvelle Vague l'ha "inventata" lui (e pochi altri): non propriamente un classico, non negli anni in cui è vissuto visto che la nuova onda frantumò molto del vecchiume precedente, ma un perfetto soggettivo, uno che componeva partiture visive lasciando agli attori riempire lo spazio e il tempo. Uno che raccontava. E allora: più classico di così...
Tra le sue dichiarazioni, una mi ha sempre colpito più di tutte. La cito a memoria quindi potrò essere impreciso: mi interessa il senso, altri mi correggeranno. Diceva "a me non interessa affatto mostrare un uomo decapitato dalle pale di un elicottero, tra mille schizzi di sangue. Quella è una situazione che nessun essere umano si troverà mai davanti. A me interessa mostrare qualcosa che chiunque può vivere".
Oggi, malgrado tutte le accelerazioni della violenza, quella frase resta viva: ciò che ci fa differenti è la vita per come la conosciamo e la viviamo. La nostra umanità. Quella frase è il faro estetico che mi guida quando scelgo un film, un libro, un quadro.

Padri e maestri: gli uni e gli altri. Li troviamo, li amiamo (sempre ricambiati dai loro insegnamenti, anche involontari, anche distanti), li perdiamo.

Adoro Rohmer per quello che mi ha insegnato.
Oggi se n'è andato.
Lascia un vuoto enorme, dentro di me.

venerdì 8 gennaio 2010

Battiti

Nella cucina della mia casa di bambino, la tv stava appollaiata su una piattaforma in alto, quasi come oggi un flat lcd sta appeso al muro, e metteva abbastanza soggezione mentre ti guardava così, da lassù.

Il 28 maggio del 1980 non avevo ancora 14 anni e me lo ricordo ancora, un po’ come fosse una nebbia che viene su da un fosso, una sorta di fantascienza al contrario, il telegiornale in bianco-e-nero che gracchia l’uccisione di un tale, ero poco più che un ragazzo, un giornalista: Walter Tobagi. Noi di questa generazione dovremmo ricordare, o aver imparato, chi era costui e cosa stava accadendo, allora, in Italia.
E i miei erano sgomenti, come sempre di fronte all’ennesima notizia di morte, in quegli anni. Non ebbi spiegazioni - e come sarebbe stato possibile: ero poco più che un ragazzo - ebbi l’ennesimo costernato e doloroso silenzio.

Oggi, dopo un po’ di giorni che ci pensavo, sono uscito per andarmi a comprare un libro che ha uno splendido titolo, da un verso di Szymborska, "Come mi batte forte il tuo cuore" e un sottotitolo ancor più bello “Storia di mio padre”. L’ha scritto la figlia di quel giornalista ucciso, Benedetta Tobagi.
La storia l'ho attesa già da quando ho letto le prime recensioni; il libro lo leggerò con avidità, con attenzione. La storia, pur se lontana da me come solo un dramma così profondamente personale può essere, fa parte di diritto di un blog come questo, dove di padri si parla sempre, in continuazione. Pur se così lontana, questa storia può diventare di chiunque, di tutti: perché a un certo punto, presto o tardi, i padri si perdono.
E allora...

Allora i figli dovranno fare quel faticoso percorso: capire perché succede oppure recuperare la memoria di una vita intera (una vita intera da figlio, una vita intera fino a quel momento) e farne un pezzo del proprio domani. Del proseguimento.

Benedetta Tobagi ha una storia drammatica, in quel percorso: dall'assenza più grande ha saputo trarre una forza enorme, la forza dell'animo, il coraggio del cercare.
Ecco, questo mi piacerebbe saper insegnare ai miei figli: la capacità del coraggio.
Un'autentica eredità.

sabato 2 gennaio 2010

Il padre Alias Luigi Zoja

Splendida intervista a Luigi Zoja oggi su Alias, il settimanale culturale de "il manifesto".
Procuratevela, anche se non siete uomini. Ancor di più se non siete padri.
Ne vale la pena.
E ne parliamo nei prossimi giorni.
Ne vale DAVVERO la pena.

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