venerdì 7 agosto 2009

Rupetraversa

Il campo da calcio, irregolare e sbrendolo, lo si vedeva laggiù, in fondo. In quella conca tra i colli di Rupetraversa.
Che fosse poi così malmesso lo si capiva soltanto avvicinandosi, guardandolo da vicino. Come sempre.
Per noi, ma soltanto per noi, che scendevamo dal sentiero con la polvere che ci carezzava i polpacci, il campo si chiamava maracanà. Perché eravamo ragazzini e pensavamo in grande.
Avevamo il nostro pallone, non di cuoio ma di plastica bella pesa, e gli indumenti appositi, esclusivamente dedicati alla partita di pallone.

"Andiamo 'ggiù le fonti" era questo il grido di battaglia, la frase chiave che, pronunciata il giorno prima al tramonto, ci metteva all'erta per tutta la sera. A prepararci gli scarpini (semplici scarpe da tennis ma chissà quante volte carezzate), i calzettoni e i calzoncini. La maglietta aveva un suo rito.
Non c'era, allora, quel profluvio di riproduzioni di maglie da calcio che infettano i ragazzini d'oggi. Avevamo metodi naturali. Molto naif, dicevamo allora. E forse, senza saperlo, non avevamo proprio scelto il termine esatto.
Funzionava così.
Ci eravamo procurati una scatola di scarpe da jogging di una nota marca sportiva. Da quella avevamo ritagliato la sagoma del logo, un animale, a mo' di stencil. Poi applicavamo il cartone così preparato sulla maglia (naturalmente sul davanti, essendoci dietro il numero amorevolmente cucito dalle rispettive madri) e tenendo tutto ben fermo provvedevamo ad una pennellata di una vernice, la ricordo rossa rossissima, terrificante: un prodotto iperchimico che, sempre nei miei ricordi, doveva provenire dalla falegnameria industriale dove lavorava mio padre.
Ma magari era vernice da biciclette, che anche quelle passavano sotto le nostre mani e la nostra creatività pre-adolescenziale.

C'erano anche le porte. Rigorosamente di legno.
Rigorosamente instabili e traballanti perché, rigorosamente, piantate a terra con qualche approssimazione. Ad ogni colpo di pallone su un palo, tutto rischiava di cadere. Era quella approssimazione la nostra virtù, la forza che ci guidava giocando. Quella che teneva in piedi anche noi (mai un graffio, mai una sbucciatura) tra la polvere gessosa e il sole canicolare.
La porta non cadde mai, nemmeno sotto i calci di punizione battuti dal più grande di noi, un cugino già ben oltre l'adolescenza ma al quale il richiamo della partita faceva dimenticare qualche ragazzina che invece andava ai giardini. A mangiare un ghiacciolo, già di mattina.

Quella maglietta l'ho conservata per anni.
Oggi chissà dov'è. Ma se dovessi cercarla, mi sembra chiaro dove potrei trovarla.
Cercando negli anfratti tiepidi delle memorie estive.
Rimirando dall'alto della strada quel campo laggiù, nella conca tra i colli. I colli di Rupetraversa.
Campo che oggi non c'è più perché il nuovo che avanza ci ha buttato sopra un po' di cemento: il turismo, e ci mancherebbe, prima di tutto.
Prima dei sogni di qualche ragazzino malinconico.

4 commenti:

  1. Come sempre è un vero piacere leggerti, le frasi scivolano via da sole e chiudendo gli occhi pare di essere lì con te, vicino a quel campo, tra i colli di Rupetraversa.
    Peccato non ci sia più. Mi torna in mente il Ragazzo della via Gluck. ... solo case su case, catrame e cemento...

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  2. @mammagiramondo: i cambiamenti ci sono e ci devono essere. Che poi cambino la prospettiva dei nostri ricordi o i panorami del nostro presente... beh quello è un'altra cosa e tocca altre corde. A "Rupetraversa" (nome di fantasia di un paese assolutamente reale ed esistente) il cemento ha voluto dire un ulteriore piccolo incremento turistico per uno splendido paesino collinare (ma splendido davvero) poco toccato dai flussi dei turisti "marini".......

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  3. sole sui tetti dei palazzi in costruzione,
    sole che batte sul campo di pallone
    e terra e polvere che tira velto...
    e poi magari piove...

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  4. @silvia gc: un giocatore lo vedi dal coraggio, dall'altruismo, dalla fantasia...

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