La donna grande, stamattina, a colazione.
- Appena diventerò Presidente della Repubblica, la prima legge che farò sarà che il bicchiere si mette a sinistra.
- Come, scusa?!
- Perché è più comodo: mentre uno con la destra mangia, se deve bere, prende il bicchiere con la sinistra.
Ecco, abbiamo le idee chiare su come sarà il futuro: destrorsi, prepariamoci a soffrire...
mercoledì 26 settembre 2012
lunedì 17 settembre 2012
Calcio vs judo: lo scontro finale
Beh, siamo stati fortunati.
Dopo lunghe ed articolate conversazioni - la profe ed io - con l'uomo piccolo, abbiamo capito come stavano davvero le cose.
- Veramente, a me del calcio non importa tanto. Io volevo farlo solo per stare insieme ai miei amici.
Insomma, i suoi compagni di classe adorati.
Quelli che gli riempiono le parole ed i pensieri.
È una bella fortuna sentirsi così a casa, nel proprio ambiente scolastico. La donna grande, ad esempio, ha sofferto parecchio prima di entrare in sintonia col resto della classe. L'uomo piccolo, invece, anche aiutato dalla presenza del suo compagno del cuore, è subito entrato in risonanza con tutti gli altri. Senza timidezze, senza complessi, senza fatica.
Sono spesso i sentimenti, non la ragione, a guidare le nostre scelte. Quelli del marketing lo sanno fin troppo bene e ciurlano nel manico alla grande. Ci manovrano.
L'educazione sentimentale è uno dei fondamenti della crescita di ognuno di noi, grandi e piccini, ma credo anche che uno dei compiti più importanti e delicati del mestiere di genitore sia quello di saperli guidare nelle loro scelte, almeno finché non sono in grado di farle in totale autonomia. Magari facendogli capire che esse possono essere il risultato di una buona analisi. Di un buon pensiero. Qualcosa di questo genere, insomma:
- Scusa, uomo piccolo, ma io credevo che tu volessi fare uno sport che ti piacesse.
- Ma infatti judo mi piace.
- E non sarebbe noioso star sempre con gli stessi amici? State già insieme tutto il giorno a scuola.
- In effetti...
- E invece, facendo judo, troveresti altri amici, avresti un altro gruppetto di persone a cui far riferimento.
Non c'è stato bisogno di insistere nemmeno un po'. L'uomo piccolo ha tirato le sue conclusioni che, malgrado le apparenze, aveva già in testa. La sua parte razionale era già d'accordo da un pezzo. La sua esperienza estiva alle vacanze di branco degli scout gli aveva dato proprio questa risposta: amici diversi in contesti diversi. E tutti sono importanti.
Ognuno è un legame.
E poi, perché no, spesso fermarsi al primo impulso può nascondere solo quella voglia di conformismo che tutti conosciamo. Aderire alle scelte della maggioranza, andar dietro a quel che fanno tutti, a quel che è più di moda.
Non siamo pecore.
E i sentimenti li coltiviamo in libertà. O, almeno, ci proviamo.
Ah, dimenticavo...: l'uomo piccolo ha ripreso col judo. :-)
Dopo lunghe ed articolate conversazioni - la profe ed io - con l'uomo piccolo, abbiamo capito come stavano davvero le cose.
- Veramente, a me del calcio non importa tanto. Io volevo farlo solo per stare insieme ai miei amici.
Insomma, i suoi compagni di classe adorati.
Quelli che gli riempiono le parole ed i pensieri.
È una bella fortuna sentirsi così a casa, nel proprio ambiente scolastico. La donna grande, ad esempio, ha sofferto parecchio prima di entrare in sintonia col resto della classe. L'uomo piccolo, invece, anche aiutato dalla presenza del suo compagno del cuore, è subito entrato in risonanza con tutti gli altri. Senza timidezze, senza complessi, senza fatica.
Sono spesso i sentimenti, non la ragione, a guidare le nostre scelte. Quelli del marketing lo sanno fin troppo bene e ciurlano nel manico alla grande. Ci manovrano.
L'educazione sentimentale è uno dei fondamenti della crescita di ognuno di noi, grandi e piccini, ma credo anche che uno dei compiti più importanti e delicati del mestiere di genitore sia quello di saperli guidare nelle loro scelte, almeno finché non sono in grado di farle in totale autonomia. Magari facendogli capire che esse possono essere il risultato di una buona analisi. Di un buon pensiero. Qualcosa di questo genere, insomma:
- Scusa, uomo piccolo, ma io credevo che tu volessi fare uno sport che ti piacesse.
- Ma infatti judo mi piace.
- E non sarebbe noioso star sempre con gli stessi amici? State già insieme tutto il giorno a scuola.
- In effetti...
- E invece, facendo judo, troveresti altri amici, avresti un altro gruppetto di persone a cui far riferimento.
Non c'è stato bisogno di insistere nemmeno un po'. L'uomo piccolo ha tirato le sue conclusioni che, malgrado le apparenze, aveva già in testa. La sua parte razionale era già d'accordo da un pezzo. La sua esperienza estiva alle vacanze di branco degli scout gli aveva dato proprio questa risposta: amici diversi in contesti diversi. E tutti sono importanti.
Ognuno è un legame.
E poi, perché no, spesso fermarsi al primo impulso può nascondere solo quella voglia di conformismo che tutti conosciamo. Aderire alle scelte della maggioranza, andar dietro a quel che fanno tutti, a quel che è più di moda.
Non siamo pecore.
E i sentimenti li coltiviamo in libertà. O, almeno, ci proviamo.
Ah, dimenticavo...: l'uomo piccolo ha ripreso col judo. :-)
mercoledì 12 settembre 2012
L'ennesima prima volta
Oggi è una prima volta. Come se tutte le altre non fossero state abbastanza "eccitanti": la prima volta al nido, il primo giorno di materna, le elementari, le vacanze scout, la prima volta a casa di un'amica.
Le medie.
La donna grande, oggi, comincia le medie.
È stato un lungo percorso di avvicinamento, cominciato l'ultimo giorno di quinta elementare.
Disperazione per amici e insegnanti che si stavano lasciando.
Tensione per ciò che stava arrivando. Poi la sezione, i nuovi libri di testo. Il pianto scacciafantasmi, i riti propiziatori.
La lunga marcia di avvicinamento somiglia all'approccio di uno scalatore.
Adesso siamo pronti.
La donna grande ha dato la sua definizione: "oggi devo scalare il mio monte Bianco".
Usciamo.
Le medie.
La donna grande, oggi, comincia le medie.
È stato un lungo percorso di avvicinamento, cominciato l'ultimo giorno di quinta elementare.
Disperazione per amici e insegnanti che si stavano lasciando.
Tensione per ciò che stava arrivando. Poi la sezione, i nuovi libri di testo. Il pianto scacciafantasmi, i riti propiziatori.
La lunga marcia di avvicinamento somiglia all'approccio di uno scalatore.
Adesso siamo pronti.
La donna grande ha dato la sua definizione: "oggi devo scalare il mio monte Bianco".
Usciamo.
mercoledì 5 settembre 2012
Forse (non?) farà calcio
Il calcio a nov'anni può essere una discreta iattura. Soprattutto se c'hai due genitori che cercano di tenertene lontano in ogni modo. Persino ottenere una maglietta di Messi (rigorosamente ai banchini dei falsi, undic'euro appena...) diventa un'impresa: e insisti e urli e sbraiti.
- Tutti i miei amici fanno calcio.
- Ma perché non lo mandate a calcio?!
- Voglio fare calcio.
Calcio. Per il maschio italiano il calcio non è uno sport, è un'ideologia di quelle non ancora morte, uno status, una rincorsa. Un intero orizzonte culturale.
E non si sfugge.
A nove anni un ragazzino è già prigioniero: le regole, le partite alla tv (europei, campionato, amichevole d'agosto), la squadra del cuore. Ecco serviti, già precotti, i miti a cui tendere: ragazzi, relativamente poco più grandi di loro, ricchi famosi che parlano in tv. Che sono sui giornali, che insegnano come vivere dalle pagine dei rotocalchi, sono trend, sono fighi. Qualcuno sfascia anche una Ferrari: "poverino, chissà che spavento". Che guadagnano fortune senza mai aver lavorato un solo giorno. Perché giustamente a quella età non si lavora, bisognerebbe andare a scuola.
Che p...izza, mi tampina già appena sveglio: "ehi, uomo piccolo, settimana prossima ricominciano le lezioni di judo. Ti iscriviamo, vero?".
No, io voglio fare calcio, calcio ho detto. Non so cosa ci sia di male: ci sarà chi ha chiesto di fare nuoto, chi rugby e chi ping pong. A me piace il calcio e tutte le volte che vado in piazza ci sono i miei amici che ci giocano. Io non so nemmeno come si mette il piede, per calciare.
E poi è uno sport che ti fa sfogare: guarda i genitori, ai bordi del campino, durante la partita. Urlano, imprecano, sputacchiano nell'aria gridando a squarciagola, incitano i loro ragazzi "spezzagli le gambineeee... Arbitro cornuto".
La dirigenza non ci tiene all'agonismo, ce l'hanno detto chiaramente, quando siamo andati con la mamma ad informarci, l'altro giorno. A loro gli interessa che ci divertiamo.
Non c'è judo che tenga, lo capisci?
Capisco che sia così. Io il lunedì mattina, quando rientro in ufficio, sono svogliato. Non ho una squadra del cuore, sono arido, non commento i risultati. Non gioisco, se vinciamo. Ma "vinciamo", chi?! Noi, loro, qualcun altro? Io il calcio lo giocavo per strada, litigavo coi compagni per un gol non concesso, per un fallo laterale millimetrico. Poi la domenica andavo allo stadio: non ci capivo granché, però mi divertivo un mondo... Avrei potuto studiare, invece. Leggere un bel libro.
Sarebbe bello appassionarsi, per i capricci di uno di questi onesti ragazzi, perché non segna più, "ha perso la via del gol" si dice, è deconcentrato. Rischia lo stop, lo metteranno in panchina.
"Se ce l'avessi io sotto mano, lo farei trottare".
Avrà problemi a casa. Povero ragazzo.
(Ma no, che vuol dire. Esageri, come sempre. Tiri in ballo il "maschio italiano". Addirittura un "orizzonte culturale". Ma non sarai un po' un invasato?! In fondo è solo uno sport, si fa così, per ridere. I ragazzi si divertono. Si sfogano, si sa i maschietti non sono come le femmine che sono più tranquille. Solo per questo, per fare due chiacchiere tra amici. Al bar).
Io, l'ho già detto, quest'anno voglio fare calcio.
Quest'anno chissà come finisce. Col judo è in crisi. Forse, forse, forse. Farà calcio.
- Tutti i miei amici fanno calcio.
- Ma perché non lo mandate a calcio?!
- Voglio fare calcio.
Calcio. Per il maschio italiano il calcio non è uno sport, è un'ideologia di quelle non ancora morte, uno status, una rincorsa. Un intero orizzonte culturale.
E non si sfugge.
A nove anni un ragazzino è già prigioniero: le regole, le partite alla tv (europei, campionato, amichevole d'agosto), la squadra del cuore. Ecco serviti, già precotti, i miti a cui tendere: ragazzi, relativamente poco più grandi di loro, ricchi famosi che parlano in tv. Che sono sui giornali, che insegnano come vivere dalle pagine dei rotocalchi, sono trend, sono fighi. Qualcuno sfascia anche una Ferrari: "poverino, chissà che spavento". Che guadagnano fortune senza mai aver lavorato un solo giorno. Perché giustamente a quella età non si lavora, bisognerebbe andare a scuola.
Che p...izza, mi tampina già appena sveglio: "ehi, uomo piccolo, settimana prossima ricominciano le lezioni di judo. Ti iscriviamo, vero?".
No, io voglio fare calcio, calcio ho detto. Non so cosa ci sia di male: ci sarà chi ha chiesto di fare nuoto, chi rugby e chi ping pong. A me piace il calcio e tutte le volte che vado in piazza ci sono i miei amici che ci giocano. Io non so nemmeno come si mette il piede, per calciare.
E poi è uno sport che ti fa sfogare: guarda i genitori, ai bordi del campino, durante la partita. Urlano, imprecano, sputacchiano nell'aria gridando a squarciagola, incitano i loro ragazzi "spezzagli le gambineeee... Arbitro cornuto".
La dirigenza non ci tiene all'agonismo, ce l'hanno detto chiaramente, quando siamo andati con la mamma ad informarci, l'altro giorno. A loro gli interessa che ci divertiamo.
Non c'è judo che tenga, lo capisci?
Capisco che sia così. Io il lunedì mattina, quando rientro in ufficio, sono svogliato. Non ho una squadra del cuore, sono arido, non commento i risultati. Non gioisco, se vinciamo. Ma "vinciamo", chi?! Noi, loro, qualcun altro? Io il calcio lo giocavo per strada, litigavo coi compagni per un gol non concesso, per un fallo laterale millimetrico. Poi la domenica andavo allo stadio: non ci capivo granché, però mi divertivo un mondo... Avrei potuto studiare, invece. Leggere un bel libro.
Sarebbe bello appassionarsi, per i capricci di uno di questi onesti ragazzi, perché non segna più, "ha perso la via del gol" si dice, è deconcentrato. Rischia lo stop, lo metteranno in panchina.
"Se ce l'avessi io sotto mano, lo farei trottare".
Avrà problemi a casa. Povero ragazzo.
(Ma no, che vuol dire. Esageri, come sempre. Tiri in ballo il "maschio italiano". Addirittura un "orizzonte culturale". Ma non sarai un po' un invasato?! In fondo è solo uno sport, si fa così, per ridere. I ragazzi si divertono. Si sfogano, si sa i maschietti non sono come le femmine che sono più tranquille. Solo per questo, per fare due chiacchiere tra amici. Al bar).
Io, l'ho già detto, quest'anno voglio fare calcio.
Quest'anno chissà come finisce. Col judo è in crisi. Forse, forse, forse. Farà calcio.
sabato 18 agosto 2012
Sua Maestà l'Alba
Stamattina il sole non si è fatto pregare. Non c'era foschia e abbiamo potuto vedere già da subito il primo millimetro di idrogeno arancione che bruciava a tutta potenza, imprendibile sull'orizzonte infinito.
Era tutto scuro, in controluce.
C'è un paradosso che sostengo con forza: in spiaggia c'è più gente all'alba che alle 9.00 e non li vedi arrivare. Presenze nere in controluce che spuntano dalla terra, dall'ombra notturna che si solleva pigra.
Camminano.
Sulla sabbia, nell'acqua, sul bagnasciuga, tra le ondine della bassa marea.
Quella vecchina era lì, ci sarà sempre stata, ho pensato, anche stanotte. China fino a terra. E "a terra" è una parola grossa, avendo le mani immerse nel mare. Cercava.
La retina verde strascicata e una mano pigra che cercava, dietro l'occhio, nell'acqua bassa. Poi un guizzo veloce che le fa tuffare le dita sotto la sabbia.
E' una caccia, una minuscola ricerca.
La nostra giornata familiare in spiaggia all'alba è ormai un rito dell'estate, da diversi anni. La sera prima l'eccitazione la si potrebbe incartare in tanti pacchetti di carta luccicante. I pargoli s'inventano quei pochi secondi in cui il sole sorgerà davanti i nostri occhi. Tardano ad addormentarsi, smaniano.
"Faremo un castello di sabbia enorme".
"Faremo il bagno e non ci sarà nessuno".
"Raccoglieremo i granchi, poverini!, morti".
"A che ora ci dobbiamo svegliare"?
E' una festa. Un giorno da calendario.
Se la guardi, la vecchietta è sospettosa. Ti restituisce di sottecchi un lampo, turista strampalato: "che ci fai qui, a quest'ora poi". E continua la sua marcia, a piccoli passi regolari, con metodo, marziale come un esercito anche se di un sol uomo.
Se ti avvicini, però, e le rivolgi una parola curiosa, ti guarda meglio. (I pargoli sono discosti, sbirciano la loro stessa timidezza che gli ha impedito di chiedere). La vecchietta ti spiega cosa fa (tu lo sai già, tua nonna lo faceva, tuo padre anche): raccoglie molluschi. Qualche granchio, se è fortunata, oppure telline. I cannille, sono il meglio del menù.
Mio padre, anche lui come tutti e come lei adesso, li tirava su con le mani, anzi con le dita, infilate fulmineamente sotto la sabbia, dopo aver individuato il foro sottilissimo che li cela. Prelibatezze della povertà, cibo gratuito, lo scopo di una passeggiata in acqua, per le vene.
Varicose, "vedi"?
Sembra tutto semplice, un po' di folklore marinaro.
I pargoli intanto si sono stufati di osservare il loro babbo strambo che si ferma a parlare con la gente, ovunque, e sguazzano in acqua più in là. Gridano allegri, spruzzano, trovano persino un pallone gonfiabile perso da qualcuno e coccolato dalle ondine sottili.
Quando torni da loro, la curiosità torna tutta. Impellente.
"Babbo, ma chi era"?
Quando il filo della conversazione sembra che stia per spezzarsi, la vecchietta ti guarda meglio. Il tuo parlare non è (più) il suo dialetto: "ma tu nen 'cì..." e immediatamente si corregge: "ma lei non è di qui".
No.
Cioè sì.
Io sono (anche) di qui, ci sono nato, ma adesso vivo lontano e forse parlo con un accento lontano. Anche se mi sorprendo sempre quando qualcuno me lo fa notare.
La vecchietta riempie la sua retina da pesca di un vuoto che è sempre lo stesso.
"Pure fjième sta fòre".
"Ogne tante revè, me vè a 'ttrévà".
"Ma qust'anne, ancore, n's'ha vèste".
Una lontananza, la solita. Quella di qualcuno che se n'è andato. A volte per necessità, a volte per scelta. A volte per amore.
Però resta lontano, parla lontano.
E' una caccia, una grande ricerca.
I cannolicchi, invece, stanno qui. Sotto la sabbia, nell'acqua. Vicini.
Basta saperli acchiappare, all'alba, quando ancora figli lontani non sollevano, nelle acque basse, la sabbia.
Era tutto scuro, in controluce.
C'è un paradosso che sostengo con forza: in spiaggia c'è più gente all'alba che alle 9.00 e non li vedi arrivare. Presenze nere in controluce che spuntano dalla terra, dall'ombra notturna che si solleva pigra.
Camminano.
Sulla sabbia, nell'acqua, sul bagnasciuga, tra le ondine della bassa marea.
Quella vecchina era lì, ci sarà sempre stata, ho pensato, anche stanotte. China fino a terra. E "a terra" è una parola grossa, avendo le mani immerse nel mare. Cercava.
La retina verde strascicata e una mano pigra che cercava, dietro l'occhio, nell'acqua bassa. Poi un guizzo veloce che le fa tuffare le dita sotto la sabbia.
E' una caccia, una minuscola ricerca.
La nostra giornata familiare in spiaggia all'alba è ormai un rito dell'estate, da diversi anni. La sera prima l'eccitazione la si potrebbe incartare in tanti pacchetti di carta luccicante. I pargoli s'inventano quei pochi secondi in cui il sole sorgerà davanti i nostri occhi. Tardano ad addormentarsi, smaniano.
"Faremo un castello di sabbia enorme".
"Faremo il bagno e non ci sarà nessuno".
"Raccoglieremo i granchi, poverini!, morti".
"A che ora ci dobbiamo svegliare"?
E' una festa. Un giorno da calendario.
Se la guardi, la vecchietta è sospettosa. Ti restituisce di sottecchi un lampo, turista strampalato: "che ci fai qui, a quest'ora poi". E continua la sua marcia, a piccoli passi regolari, con metodo, marziale come un esercito anche se di un sol uomo.
Se ti avvicini, però, e le rivolgi una parola curiosa, ti guarda meglio. (I pargoli sono discosti, sbirciano la loro stessa timidezza che gli ha impedito di chiedere). La vecchietta ti spiega cosa fa (tu lo sai già, tua nonna lo faceva, tuo padre anche): raccoglie molluschi. Qualche granchio, se è fortunata, oppure telline. I cannille, sono il meglio del menù.
Mio padre, anche lui come tutti e come lei adesso, li tirava su con le mani, anzi con le dita, infilate fulmineamente sotto la sabbia, dopo aver individuato il foro sottilissimo che li cela. Prelibatezze della povertà, cibo gratuito, lo scopo di una passeggiata in acqua, per le vene.
Varicose, "vedi"?
Sembra tutto semplice, un po' di folklore marinaro.
I pargoli intanto si sono stufati di osservare il loro babbo strambo che si ferma a parlare con la gente, ovunque, e sguazzano in acqua più in là. Gridano allegri, spruzzano, trovano persino un pallone gonfiabile perso da qualcuno e coccolato dalle ondine sottili.
Quando torni da loro, la curiosità torna tutta. Impellente.
"Babbo, ma chi era"?
Quando il filo della conversazione sembra che stia per spezzarsi, la vecchietta ti guarda meglio. Il tuo parlare non è (più) il suo dialetto: "ma tu nen 'cì..." e immediatamente si corregge: "ma lei non è di qui".
No.
Cioè sì.
Io sono (anche) di qui, ci sono nato, ma adesso vivo lontano e forse parlo con un accento lontano. Anche se mi sorprendo sempre quando qualcuno me lo fa notare.
La vecchietta riempie la sua retina da pesca di un vuoto che è sempre lo stesso.
"Pure fjième sta fòre".
"Ogne tante revè, me vè a 'ttrévà".
"Ma qust'anne, ancore, n's'ha vèste".
Una lontananza, la solita. Quella di qualcuno che se n'è andato. A volte per necessità, a volte per scelta. A volte per amore.
Però resta lontano, parla lontano.
E' una caccia, una grande ricerca.
I cannolicchi, invece, stanno qui. Sotto la sabbia, nell'acqua. Vicini.
Basta saperli acchiappare, all'alba, quando ancora figli lontani non sollevano, nelle acque basse, la sabbia.
venerdì 15 giugno 2012
Volevo la mela
Ieri sera, vedendo questo oggetto (peraltro amorevolmente fatto dalle manine della donna grande, con gran uso di strumenti pericolosi come lame e trincetto), sono rimasto abbastanza colpito.
Non so dire in che termini.
Diciamo che la cosa mi ha fatto pensare.
Naturalmente, il messaggio per me è molto chiaro: noi siamo una famiglia che pone moooolte (troppe?...) limitazioni all'uso di oggetti tecnologici.
I nostri pargoli non posseggono nessun oggetto tecnologico personale, se si esclude un piccolo, ormai obsoleto, videogame tascabile.
Molti altri ragazzini dell'età dei nostri dispongono invece di strumenti evolutissimi, all'ultima moda: console, pc, lettori laser di onde extragalattiche, iPod, iPad, iPid, iPud and so on. Gestiscono, nelle loro "tenere" manine, oggetti che tra l'altro hanno prezzi di mercato non indifferenti, che marcano un ulteriore territorio. Un confine e, di conseguenza, un gap.
Che, naturalmente, non è soltanto tecnologico.
Inoltre, una parte di questo armamentario è ludico ma, per altri versi, si tratta anche di strumenti di lavoro, come pc e tablet.
Così, torno ad esprimere la mia consapevolezza, i pargoli ci stanno dicendo che anche loro vorrebbero gli stessi oggetti. Lo stesso status.
Non siamo d'accordo, per una lunga serie di motivi, ma sono problemi nostri, li risolveremo come potremo.
Quel che invece mi sembra utile condividere è la riflessione che continua a rimbalzarmi dentro il cervello da ieri sera in maniera ossessiva ma semplice, quasi banale. E ho fatto delle similitudini.
E' come se, dati i tempi del nostro esser stati bambini, i nostri genitori ci avessero fatto giocare con una calcolatrice elettronica o, per tornare appena un po' più indietro, con un seghetto, una vanga. Un alambicco.
Se c'è una conquista rivoluzionaria delle scienze sociali è stata la scoperta dell'infanzia come uno stato indipendente dello sviluppo umano. Non un mondo di piccoli adulti ma proprio un'altra cosa.
Così dall'infanzia dickensiana siamo passati all'infanzia compresa e protetta dei nostri tempi. I bambini sono all'improvviso e fortunatamente passati dallo status di lavoratori piccoli e malleabili e sfruttabili a quello di persone da educare, con un loro mondo fatto di scuola, giochi, educazione. Sviluppo.
Probabilmente noi quarantenni d'oggi siamo stati la prima (e, direi ormai, l'unica) generazine allevata interamente dentro questa consapevolezza: non ci hanno allevato per lavorare ma ci hanno fatto studiare, giocare, crescere serenamente.
Tutto ciò pare non ci sia bastato. Così stiamo tornando a vedere i nostri figli come macchine competitive da avviare ad un competitivo mondo della produzione. Non mi sembra di poter spiegare altrimenti la nostra folle bulimia di metterli in grado di usare strumenti che, non abbiate paura, li renderanno schiavi per il resto dei loro giorni non appena saranno abbastanza grandi da, appunto, iniziare davvero a produrre.
La motivazione è sempre la stessa, pompata da ogni mezzo di comunicazione: l'alfabetizzazione digitale, annullare il divario digitale. Damogli subito gli strumenti ultranuovi, ultramoderni, ultrafighi. Sennò saranno degli analfabeti.
Qualcuno di noi, se lo ricorda (lo sa) davvero cos'è l'analfabetismo? Io no, non l'ho conosciuto e non ho le idee chiare su cosa realmente voglia dire.
Sono però certo di una cosa: che non si combatte l'analfabetismo iniziando a leggere e scrivere a due anni. Quella è competizione, dei grandi, di noi genitori. Che passiamo ai nostri figli.
"Se mio figlio sarà in grado di spippolare su quegli attrezzi prima degli altri, sarà avvantaggiato". Per non dire "più ganzo", ma questa è ancora un'altra storia.
Allora penso che la generazione che abbiamo tra le mani, i nostri piccoli undicenni o novenni, la stiamo rimettendo in rampa di lancio. Li vediamo come macchine, come oggetti del mondo che ci siamo costruiti, tornando indietro.
E di molto, a mio modo di vedere.
Avanziamo a grandi passi verso il passato.
lunedì 4 giugno 2012
Il vecchio e il nuovo
Oggi è cominciata l'ultima settimana.
No, tranquilli: non c'entrano le sfighe maya, le previsioni dell'oroscopo o i fondi di caffè.
Oggi è l'ultima settimana di scuola elementare per la donna grande. Fra tre mesi circa, minuto più minuto meno, inizierà la scuola media.
Aiutoooooo!!!
Non voglio fare retorica sul tempo che vola, era ieri e cose così. Ci siamo goduti tutto il tempo, i passaggi di rito, il cambio di passo nei compiti, le difficoltà di integrarsi in un mondo - quello dei ragazzini di questa età - dove ogni più piccola differenza è una leva per il rifiuto.
Ora che la donna grande sta sbocciando come un fiore di personalità nuova, ora che le insicurezze stanno lasciando il posto alle prime certezze, ora che faticosamente ha saputo scalare la rupe di quel rifiuto per entrare a testa alta nel gruppetto degli "integrati", lasciamo tutto e ricominciamo daccapo.
Una metafora.
Le fatiche che la vita, anche quella di un'undicenne, ci mette davanti. La paura di abbandonare la via ormai conosciuta per una nuova, che compare laggiù con le incognite del buio.
Ogni tanto un piantino, più o meno disperato, per ribadire quanto adesso non voglia lasciare i suoi compagni, finalmente conquistati.
Il mio cuore, ora che batte davvero in sincrono col suo, è strizzato come una spugna: secco, con tutto il liquido scivolato via.
Sto pensando le parole giuste per consolarla.
Per accompagnare queste nuove paure che arrivano, per spiegarle, se mai sarò capace.
Stasera, forse, ho trovato una chiave e la devo ad Akela, Baloo e Chil: presenze nuove che da un po' di mesi ci accompagnano. (Lo avevo detto qui).
Una loro "carezza" verbale è diventata un'intera interpretazione: il nostro posto è quello dove stiamo. Di volta in volta. E c'è un motivo se quel posto cambia, non sarà mai lo stesso, nel corso del tempo.
Il nostro posto sono le relazioni che stabiliamo e le storie che sappiamo intrecciare insieme agli altri. E sapere che gli altri non sarebbero affatto gli stessi se non avessero incontrato noi, se non ci fossimo trovati ad incrociare certe strade.
Non so quanto sia chiaro questo ragionamento, a chi legge queste righe e alla donna grande, quando glielo farò. Però qui dentro è chiarissimo. Una rivelazione.
Una luce.
Per il nuovo che ci aspetta e ci spaventa e ci commuove, insieme.
No, tranquilli: non c'entrano le sfighe maya, le previsioni dell'oroscopo o i fondi di caffè.
Oggi è l'ultima settimana di scuola elementare per la donna grande. Fra tre mesi circa, minuto più minuto meno, inizierà la scuola media.
Aiutoooooo!!!
Non voglio fare retorica sul tempo che vola, era ieri e cose così. Ci siamo goduti tutto il tempo, i passaggi di rito, il cambio di passo nei compiti, le difficoltà di integrarsi in un mondo - quello dei ragazzini di questa età - dove ogni più piccola differenza è una leva per il rifiuto.
Ora che la donna grande sta sbocciando come un fiore di personalità nuova, ora che le insicurezze stanno lasciando il posto alle prime certezze, ora che faticosamente ha saputo scalare la rupe di quel rifiuto per entrare a testa alta nel gruppetto degli "integrati", lasciamo tutto e ricominciamo daccapo.
Una metafora.
Le fatiche che la vita, anche quella di un'undicenne, ci mette davanti. La paura di abbandonare la via ormai conosciuta per una nuova, che compare laggiù con le incognite del buio.
Ogni tanto un piantino, più o meno disperato, per ribadire quanto adesso non voglia lasciare i suoi compagni, finalmente conquistati.
Il mio cuore, ora che batte davvero in sincrono col suo, è strizzato come una spugna: secco, con tutto il liquido scivolato via.
Sto pensando le parole giuste per consolarla.
Per accompagnare queste nuove paure che arrivano, per spiegarle, se mai sarò capace.
Stasera, forse, ho trovato una chiave e la devo ad Akela, Baloo e Chil: presenze nuove che da un po' di mesi ci accompagnano. (Lo avevo detto qui).
Una loro "carezza" verbale è diventata un'intera interpretazione: il nostro posto è quello dove stiamo. Di volta in volta. E c'è un motivo se quel posto cambia, non sarà mai lo stesso, nel corso del tempo.
Il nostro posto sono le relazioni che stabiliamo e le storie che sappiamo intrecciare insieme agli altri. E sapere che gli altri non sarebbero affatto gli stessi se non avessero incontrato noi, se non ci fossimo trovati ad incrociare certe strade.
Non so quanto sia chiaro questo ragionamento, a chi legge queste righe e alla donna grande, quando glielo farò. Però qui dentro è chiarissimo. Una rivelazione.
Una luce.
Per il nuovo che ci aspetta e ci spaventa e ci commuove, insieme.
giovedì 31 maggio 2012
Bambini, nel tempo.
Le zuffe di bambini che mi ricordo io, per avervi partecipato direttamente o nel racconto di qualche coetaneo, erano piene di imprecazioni sguaiate; di grandi polveroni alzati, chissà perché, quasi sempre contro sole; di occhiali rotti e pallonate in faccia.
Urla, strepiti, spintoni.
Qualche volta avevano persino il sapore metallico di un po' di sangue per un labbro spaccato.
Eravamo bradi abitanti di una strada non ancora violentata dalle auto ma mai abbiamo visto un qualche adulto pararcisi incontro con aria minacciosa durante uno di quei match.
Non dico che fosse giusto o sbagliato, meglio o peggio di oggi.
Soltanto che ce la cavavamo da soli, che trovavamo vie di soluzione. Che in quelle ammucchiate nascevano o si rompevano grandi amicizie, si capivano concetti astrusi come solidarietà e tangibili bisogni come leccarsi le ferite (in senso figurato, il più delle volte) e tornare indietro un po' acciaccati ma tutti assieme. Insomma, mimavamo gli adulti senza sapere bene cosa andasse fatto. Ci sembrava, il mostrare i muscoli, emulazione di un'esistenza adulta che, ancora, ci sfuggiva.
Non capivamo bene in cosa consistesse quella volontà di potenza che stava nel diventare grandi. Crescevamo tirandoci i capelli.
Adesso che, finalmente, adulti siamo diventati. Che abbiamo sperimentato la nostra, individuale, volontà di potenza. Che ci siamo presi responsabilità che nessuno ci aveva così distesamente spiegato. Inventandoci un ruolo, cambiandone le regole peggiori o quelle che semplicemente non ci piacevano, adesso dicevo è come se ci fossimo dimenticati ogni cosa.
Proteggiamo i nostri figli da qualsiasi graffio. Qualche volta sembra persino che vogliamo difenderli dai loro stessi sentimenti, da certe emozioni. Ogni volta che cercano di scaricare quella immensa energia (che noi potevamo disperdere scapicollandoci per il mondo) li redarguiamo, li mettiamo a freno (come se non bastassero i muri altissimi che gli abbiamo costruito attorno): questo non si fa, così non ci si comporta. Non appena accennano, appunto, una zuffa di bambini, si scatena il finimondo.
Il nostro finimondo di adulti.
Di cosa abbiamo paura? Che cadano da un albero rotolando (e magari imparino a rialzarsi)? Che si spacchino un labbro?
Che si sbuccino un ginocchio.
E' un frusciare di gonne, e valgono per madri e per padri oramai, che si fanno minacciose, un "ricordati che devi morire" recitato come un mantra, una difesa piccolissimo-borghese di chissà quale rispettabilità. Di bambini?
E allora, spero un giorno, sinceramente, di veder tornare uno dei miei figli con un occhio pesto. Perché sarebbe molto più difficile spiegarglielo con le "chiacchiere" come ci si sente.
Forse sì, forse ci siamo dimenticati quel che siamo stati.
Anche noi, secoli fa siamo stati bambini.
Nel tempo e senza remore. Se non di crescere.
Urla, strepiti, spintoni.
Qualche volta avevano persino il sapore metallico di un po' di sangue per un labbro spaccato.
Eravamo bradi abitanti di una strada non ancora violentata dalle auto ma mai abbiamo visto un qualche adulto pararcisi incontro con aria minacciosa durante uno di quei match.
Non dico che fosse giusto o sbagliato, meglio o peggio di oggi.
Soltanto che ce la cavavamo da soli, che trovavamo vie di soluzione. Che in quelle ammucchiate nascevano o si rompevano grandi amicizie, si capivano concetti astrusi come solidarietà e tangibili bisogni come leccarsi le ferite (in senso figurato, il più delle volte) e tornare indietro un po' acciaccati ma tutti assieme. Insomma, mimavamo gli adulti senza sapere bene cosa andasse fatto. Ci sembrava, il mostrare i muscoli, emulazione di un'esistenza adulta che, ancora, ci sfuggiva.
Non capivamo bene in cosa consistesse quella volontà di potenza che stava nel diventare grandi. Crescevamo tirandoci i capelli.
Adesso che, finalmente, adulti siamo diventati. Che abbiamo sperimentato la nostra, individuale, volontà di potenza. Che ci siamo presi responsabilità che nessuno ci aveva così distesamente spiegato. Inventandoci un ruolo, cambiandone le regole peggiori o quelle che semplicemente non ci piacevano, adesso dicevo è come se ci fossimo dimenticati ogni cosa.
Proteggiamo i nostri figli da qualsiasi graffio. Qualche volta sembra persino che vogliamo difenderli dai loro stessi sentimenti, da certe emozioni. Ogni volta che cercano di scaricare quella immensa energia (che noi potevamo disperdere scapicollandoci per il mondo) li redarguiamo, li mettiamo a freno (come se non bastassero i muri altissimi che gli abbiamo costruito attorno): questo non si fa, così non ci si comporta. Non appena accennano, appunto, una zuffa di bambini, si scatena il finimondo.
Il nostro finimondo di adulti.
Di cosa abbiamo paura? Che cadano da un albero rotolando (e magari imparino a rialzarsi)? Che si spacchino un labbro?
Che si sbuccino un ginocchio.
E' un frusciare di gonne, e valgono per madri e per padri oramai, che si fanno minacciose, un "ricordati che devi morire" recitato come un mantra, una difesa piccolissimo-borghese di chissà quale rispettabilità. Di bambini?
E allora, spero un giorno, sinceramente, di veder tornare uno dei miei figli con un occhio pesto. Perché sarebbe molto più difficile spiegarglielo con le "chiacchiere" come ci si sente.
Forse sì, forse ci siamo dimenticati quel che siamo stati.
Anche noi, secoli fa siamo stati bambini.
Nel tempo e senza remore. Se non di crescere.
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