mercoledì 24 marzo 2010

Cercare il padre

E' un viaggio vero e proprio, un'impresa quella di mettersi in cammino, sulle onde ritrose della memoria (anche perduta), alla ricerca del padre.
Un forte, fortissimo bisogno di questi anni recenti: dal rischio di un mondo senza padri ci avviamo invece verso una nuova definizione della figura. E non mi pare un caso che siano due figlie, a fare il viaggio. Due donne alla ricerca della figura maschile per eccellenza. Un corto circuito non da poco oppure un incrocio necessario, di ruoli e desideri e corrispondenze.
Due modi completamente differenti: Benedetta Tobagi deve necessariamente affrontare un cammino doloroso tra memorie che non sono (più) le sue e lo fa nel solco limpidissimo della testimonianza civile; Rosa Matteucci invece affronta giocosa e circense un'epopea (anche linguistica, con fortissimo stile da equilibrista) familiare dove il padre è tutto: clown e domatore, impresario fallimentare e deus ex machina, capofamiglia e sventurato adolescente.
Due grandi emozioni che hanno lo stesso punto di partenza e di arrivo (la ricerca e il recupero) ma percorsi assolutamente diversi: un cammino fatto con mezzi non omologabili, a dorso di mulo o su una specie di tappeto volante, a seconda delle necessità. Secondo le storie, le vite.
Non entrerò nella tragedia della nostra storia recente (Tobagi è stato assassinato nel maggio del 1980) perché il libro di Benedetta Tobagi ha già il pregio di ricostruire in maniera documentatissima una vicenda pubblica intrecciandola, senza moralismi, ai sentimenti segreti di figlia in un percorso che si tinge, mentre lo facciamo con lei, di sfumature tenui e forti allo stesso tempo, di delicati profumi, di dolore e disperazione. Di male.
Benedetta ricostruisce qui quello che deve essere stato (lo dichiara, tra le righe) il suo medesimo cammino umano nell'immergersi nella materia viva e sconosciuta (aveva tre anni, nel 1980) che era suo padre.
L'abbraccio tra un'assenza e una figlia (che è oggi testimone stessa) lo vediamo laggiù in fondo, si intuisce da subito iniziando la lettura del libro. Ci avviciniamo con lei, titubanti e intimiditi a volte, entusiasti e vitali in altre pagine. Sempre accanto alle parole del racconto perché vorremmo essere con lei quando l'incontro ci sarà.
Non ho avuto la fortuna di assistere ad una delle presentazioni del suo libro che Benedetta ha tenuto in giro per l'Italia. Amici che invece ci sono riusciti raccontano di sentimenti tangibili, di una straordinaria lucidità, di un'atmosfera (evocata da parole ricordi e testimonianza civile) piena di vibrazioni. Quell'abbraccio, alla fine, c'è stato. Perché certe figure non passano, certi insegnamenti ci raggiungono ovunque in ogni tempo, anche in quello della separazione violenta e, per così dire, contro natura. L'eredità forte del paterno.
Rosa Matteucci invece ci strabilia con uno stile letterario decisamente fuori dal comune. Lei, che ci ha abituato bene da sempre. Stavolta poi la materia è sentimentale senza esserlo e la scelta del registro ironico lo sottolinea: la sua figura paterna è già lì, completamente presente e visibile. Occupa lo spazio intero, non l'ossessione della ricerca ma il senso pieno dell'immanenza. Un padre troppo, un padre tutto. Persino un padre/madre quando ancora non erano previste certe commistioni e i ruoli erano semmai invertiti: le madri per la prole, i padri a produrre. Qui il ribaltamento è totale, il senso di straniamento altrettanto forte, non per nulla si può parlare di respiro circense, di vaudeville. Qualche volta, leggendo, mi tornavano alla mente alcuni testi e atmosfere di Capossela.
Matteucci aderisce all'oggetto del suo desiderio: suo padre, figura improbabile protagonista della decadenza di un'intera famiglia, è quasi un complice, un compagno di giochi anche quando meriterebbe qualche pesante strale. Una quasi-maledizione. Tutto ciò, ancora una volta, a dimostrare come anche le presenze più estemporanee, le distanze e le assenze riescono a segnare prima una traccia, poi un abbozzo di percorso e, infine, un cammino o "il" cammino di una vita.
Raccontato, come accade in questi due libri così diversi quindi tanto complementari da poter essere considerati un dittico, dal punto di vista dei figli (e, come detto, mi piace particolarmente che siano figlie femmine in questo caso a raccontare) in maniera da rendere al lettore il senso ultimo dell'esperienza del vivere.
Quella sospensione tra una cosa e l'altra, tra un prima e un dopo che, nel ricordo, sembrano confondersi ma soltanto perché a volte non si capisce chi educhi chi.
Chi lascia un'eredità a chi altri.
Cosa vuol dire essere figli se sei tu, mio padre.

4 commenti:

  1. bella questa riflessione sulla figura del padre. mi viene in mente che ho letto la settimana scorsa un articolo sulla presenza della figura materna nella recente produzione letteraria italiana. il confronto con la figura genitoriale è un passaggio obbligato per la crescita. dopo il rifiuto del 68 sarà ora di un nuovo rapporto? speriamo di sì, e speriamo che di vada davvero verso un'evoluzione e non verso un'involuzione...

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  2. libri bellissimi, ci metterei anche quello di Calabresi (ora direttore de La Stampa di Torino)

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  3. @piattini: il "gran" rifiuto del '68 marcava una vera distanza (vera perché fortemente "sentita") dalla generazione dei padri. Noi abbiamo il compito di mantenere il contatto e saper insegnare qualcosa che serva ai nostri figli per il futuro, non per la sterile conservazione di un passato tout-court. Saremo in grado?...

    @giardigno: lo aggiungo all'elenco delle letture da fare.

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  4. Sì, anch'io ho letto il libro della Tobagi e quello di Calabresi. Interessanti anche perchè scritti con stili profondamente diversi. Estremamente documentato, quasi documentaristico il primo, pur nella ricchezza dei sentimenti (ho dovuto smettere di leggere in alcuni punti). Immediatamente più empatico e più strettamente famigliare il secondo. Leggilo, così puoi fare un confronto non solo sui contenuti ma anche sullo stile di chi lo ha scritto (e probabilmente sulle differenti personalità).

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