venerdì 21 marzo 2014

Il crollo dei libri (e di chi ci vive)





Ho appena finito di leggere l’ottimo articolo di Christian Raimo su pagina99 e trovo che abbia ragione quando accusa le grandi aziende editoriali (e ricordiamoci dove lavorava fino a ieri Gian Arturo Ferrari…) di avere buona parte della responsabilità del disastro.
Da parte mia vorrei aggiungere qualche pensiero e qualche elemento. Anch’io lavoro nel settore, sono un “oscuro” agente commerciale di uno di quei grandi gruppi, e mi considero altrettanto importante di un autore, di un tipografo, di un editor, di un recensore, di un giornalista culturale (che peraltro, almeno per hobby, sarei anche…), di un addetto marketing. Anzi, di questi ultimi, mi sento molto molto molto più “necessario”.
A differenza degli editori (tutti, non solo i grandi), io non credo che la “lettura” sia una merce vendibile. Puoi vendere un libro, un quotidiano, una rivista, un sito ma non puoi vendere la “lettura”. Leggere è un processo completamente differente. Ha a che fare col desiderio, con una visione del mondo, con un comportamento. Leggere è come fare sesso, puoi solo volerlo. Sennò è violenza. Leggere è molto più vicino alla psicologia, al comportamentismo, che al marketing.
E infatti, io credo che grande colpa di questo disastro sia proprio dell’oscuro, arido marketing. Ricordo quando, agli inizi degli anni Duemila, ci fu la prima iniezione massiccia di marketing dentro l’editoria che era rimasta, fino ad allora, un settore artigianale che mal si piegava all’economia di scala, alla ristrutturazione necessaria.
Vado a memoria, gli esperti di fact checking journalism mi correggeranno, ma mi pare fu proprio la Feltrinelli, librerie ed editore, ad accogliere a braccia aperte manager di formazione esterna, provenienti per lo più dalla grande distribuzione (Esselunga, mi par di ricordare). Oggi le grandi aziende editoriali del paese sono tutte in mano a gente che viene appunto dalla grande distribuzione, da una casa automibilistica piuttosto che da una multinazionale del formaggino. Gente che, ci scommetto quel che non ho, se si esclude economia e commercio e il supermaster, non ha mai letto un libro in vita sua. Per il piacere di leggerlo, intendo. Per sé.
Gente che non ha mai più letto un libro.
Ossia: non sanno mica di cosa si stanno occupando.
Il tronfio manager del tronfio gruppo dominante (di cui si parla nell’articolo di Raimo) ci ricorda, ed ha ragione lui sia chiaro, che un editore non educa. Un editore vende.
Mercato.
Quindi fine del discorso.
Oppure.
Oppure si potrebbe pensare che per vendere un prodotto editoriale (libro? ebook? sito? connessione neurocerebrale ad alta densità di contenuti?) ci vuole qualcuno che lo legga. Che ne desideri non soltanto il possesso (ah ah ah, risate grasse) ma che abbia bisogno di volerlo, di fruirlo, di “farlo proprio”. Di leggerlo, appunto. Che abbia bisogno di quella fascinazione, almeno.

Se la situazione italiana è così disastrosa in confronto ad altri Paesi c’è anche un motivo strettamente legato al mercato e a come esso è strutturato qui da noi. L’Italia è, tra i principali Paesi occidentali, uno dei pochi dove i negozi nei quali il prodotto si vende sono tutti (o quasi) in mano ai produttori. Altro che monopolio.
Questo è diopolio. Il mercato del libro in Italia E’ degli editori. Non dei consumatori, non dei lavoratori del settore, non di una pluralità di concorrenti. Le grandi aziende editoriali hanno tutte (o quasi) la loro catena di proprietà dove fanno quel che vogliono, dove vendono quel che decidono loro “produttori”, dove impongono vita o morte ai piccoli editori, ancelle spesso semi-consenzienti o perlomeno costrette alla promiscuità perdente. Tra catene, inoltre, non esiste concorrenza ma cartello perenne, spartizione di spazi, una mano lava l’altra e tutte e due tengono il lettore con la testa sotto il pelo dell’acqua.
Così non c’è bisogno alcuno di fare qualità, di scegliere libri buoni, autori validi che abbiano qualcosa da dire. Oggi c’è bisogno di un mediocre prodotto che sia presto (spesso anche prima che il libro stesso esista) opzionato per il cinema, di una stupida ragazzina che obnubila il cervello degli adolescenti di mezzo mondo per radere al suolo ogni immaginario, di qualche grande firma (e sì, mettiamoci anche questi/e! Ché se lo meritano) che ormai asservita si presta ad intossicare ulteriormente l’aria che… leggiamo.
Basta un cugino (anzi, preferibilmente un parente o un amico di un amico) che sappia buttar giù qualcosa. Poi una forma gliela troviamo.
E non credete alla contro-balla che “non è vero che i libri di qualità, i capolavori (ammesso se ne scrivano ancora e io ci credo che se ne scrivono) mai rimangono chiusi nei cassetti ma escono sempre”. I capolavori (certo sono troppo pochi, non saturerebbero il mercato che invece deve traboccare) in realtà sono una iattura. Troppo difficili, non si vendono. Non li vuole più nessuno. Gli editori li fuggono, come la peste. Vade retro.
Molto meglio quel bel “prodotto medio che può essere letto nel tempo medio di una cagata media” (cit.).
Prodotti seriali che più seriali non si può. Evanescenti romanzucci sull’ombelico dell’ombelico del Qualunque. Saggi che di saggistico non hanno più nemmeno il sentore. Spesso porcherie piene di opinabili opinioni fatte passare per dati incontrovertibili. La scienza del chissacome, l’oggettività del forse/si dice/mi pare di aver capito. Tutto in nome di un fatturato che va tenuto in piedi così, come si tiene in piedi una mummia. Imbalsamando.

Perché poi tutti, in ogni settore merceologico, non solo in editoria, si riempiono la bocca col fatto che il “consumatore non è cretino, sa scegliere”. (Salvo poi offrirgli libri orripilanti, aggiungo io).
Io credo invece che noi consumatori, per definizione, siamo proprio cretini. Altrimenti non “consumeremmo”. Ma, data ormai per assunta la definizione e lo status di cretini, evidentemente ci stiamo anche stufando di quelli che ce lo ricordano ogni minuto di ogni giorno. Così leggiamo meno, magari rileggiamo qualcosa di quello che abbiamo già in casa e ci era piaciuto tempo addietro. Personalmente (purtroppo non leggo quanto vorrei, mi fermo intorno ai 40/50 libri l’anno) faccio sempre più difficoltà a ricordare un libro memorabile tra le novità editoriali. Ricorro ai classici, quando ho tempo disteso da dedicargli (perché l'ho appena detto, i capolavori sono difficili: “Moby Dick”, che due palle!). Ricorro agli autori del mio pantheon, oppure all’intrattenimento di qualità. Spulcio, rileggo. Alla peggio, se proprio devo, scrivo.

Naturalmente ormai è troppo tardi. Un libro in ogni casa è utopia irrealizzabile. Che peraltro abbiamo gioiosamente sostituito con device di qualsiasi ordine e grado. E almeno un paio a testa. Ché poi leggiamo anche lì sopra, sui device: facebook, twitter, i social. Se non è lettura quella! Ma basta parlare di libri, basta insistere, per carità.
Gli autori, poi! Che barba. Caro Christain Raimo sei obsoleto, mi dispiace.
Basterà un bel software per raccontarci il mondo, una storia, un’emozione o un dolore. Studiate mi raccomando. Diventate programmatori.

5 commenti:

  1. Risposte
    1. @amanda: non so se sia meglio così :) oppure così :( Cmq grazie.

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  2. Credo che dipenda dal fatto che leggere è un piacere che comunque costa fatica, c'è bisogno di fare attenzione al testo, seguire la trama, riflettere su quello che leggiamo. Oggi si rifugge la fatica come la peste.

    Anche io sono un buon lettore, ultimamente affianco ai libri acquistati in libreria anche quelli in prestito alla biblioteca per alleggerire il costo sul budget familiare :)
    Credo poco nella frase "marketing" che si vende quello che vuole la gente. Per alcuni generi, come per i libri o gli spettacoli in tv, c'è anche una parte di creazione del gusto medio. Quindi è una domanda che viene alimentata dalla stessa offerta, è un percorso circolare non unidirezionale.

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    1. @daniele: caro Daniele credo che tu abbia colto proprio uno degli aspetti principali dell'offerta cosiddetta culturale e cioè quella di veicolare, tramite i "contenuti" (sic!), il gusto, una certa visione del mondo, lo spirito critico ed altri milioncini di cose. Se il marketing governa da solo questo processo che tende all'omogeneizzazione per generare più vendita possibile, il gusto medio si abbassa, si appiattisce non su ciò che il lettore-consumatore sceglie ma su ciò che trova. Su ciò che il mercato offre, sull'offerta dominante. E siccome il mercato ecc ecc, ecco che, come dici tu, si apre un circolo vizioso.

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