mercoledì 2 dicembre 2009

Gli accessori del babbo (12): l'anima e la corazza

Quando la sera torno a casa e butto a terra la corazza e le spade quello che sento è solo il clangore della giornata che ho appena trascorso. Il senso di spossatezza lasciato da quei paludamenti che non amo (come amare le armature che sono per la guerra?) mi fagocita: stare nel mondo come un Achille distruttore è lontano dalla mia intima essenza. Serve: a lavorare, a trovare il ruolo adatto nel campo da gioco della vita. Gioco pesante, quasi un wargame, ancora.
Poi, subito dopo, mi prende il timore di cosa mi chiederanno, di lì a poco, i miei figli. Come mi verrà incontro la donna grande, cosa avrà bisogno di dire? E l'uomo piccolo quale artificio vorrà vedere, la mano ferma sull'elsa o la carezza dolce che la medesima mano può scegliere di dare?
Altro che gesto di Ettore, la situazione si complica: perché oggigiorno i punti di riferimento sono mobili e cambiano e si spostano con velocità sempre crescente. Anche noi, che come generazione abbiamo conosciuto poche certezze e molte rincorse, siamo spiazzati di fronte alla velocità (il futurismo all'ennesima potenza distruttrice) e alla liquidità che respiriamo.
Così i nostri padri, o semplicemente genitori come noi soltanto un po' più grandi, consigliano ai figli di andarsene, di scappare finché sono in tempo.
Ché questo Paese ormai ha il destino segnato.

I miei figli oggi sono bambini, prigionieri di una condizione che li lega a noi per (soprav)vivere, non possono andare da nessuna parte. Non scapperanno, ancora per un po'.
E allora, con la corazza abbandonata vuota in un angolo, cerco qualcosa dentro di me, una scintilla di umanità (no, niente di divino, mi spiace), un gesto ricordato laggiù che mi coprì la guancia e mi insegnò a non gridare mai. Perché le grida impediscono di sentire. Oppure cerco i loro sentimenti di pargoli in piena attività, celati dietro domande ingenue ma dure, profonde, implacabili. Spolvererò le emozioni che faticano ad uscire fino a renderle scintillanti e luminose. Insegnerò rispetto se sarò capace di viverlo, amicizia sorridendo, spirito critico per abbattere il brutto e costruire meglio.
Se fossi capace. Ci proverò.

A noi padri riporre le armi, svuotare la corazza lasciandola alla ruggine e usare le mani per indicare la via e carezzargli le spalle che iniziano il cammino.

E allora, chi ha davvero il destino segnato? Un Paese che non si sveglia dal suo medioevo di ritorno o i nostri figli, condannati alla fuga?
Io non avrei dubbi, se non fossi il loro genitore.
Invece: che ne sarà stato del lavoro quando toccherà a loro entrare in quel mondo? Che diritti avranno domani, visto che non sono ricchi e potenti? Che spazi si apriranno di fronte alle loro legittime aspirazioni, ai loro desideri e aspettative? Che vita avranno? Che.

Però qualcosa penso di saperlo: e scappare non mi sembra la soluzione. Allora proverò a dar loro degli strumenti, quelli che troverò a disposizione e potrò lasciargli da maneggiare, proverò ad insegnargli cosa significa essere cittadini di un posto e lavorare perché quella condizione possa essere mantenuta e migliorata, e anzi portata con sé altrove, se uno mai dovesse spostarsi. Proverò ad insegnargli che dopo di loro arriverà qualcun altro e se tu scappi non lasci più spazio a nessuno.
Lasci il vuoto, il vuoto della tua mancata presenza.
Il vuoto del tuo lavoro non fatto.
Il silenzio di chi non ha saputo capire.

Alcuni ringraziamenti vanno a: Loredana Lipperini che ha appena finito di parlare di questo a Fahrenheit su RadioTre, a Benedetta Tobagi che ne ha scritto oggi su Repubblica, a Pierluigi Celli che ha inviato una lettera ad un figlio e l'hanno letta tutti.

12 commenti:

  1. Queste tue riflessioni sono molto belle. La discussione che sta nascendo intorno alla lettera di Celli è ricca di spunti e di sfaccettature, perché ci chiama in causa come genitori e come cittadini e quindi ci chiede di vedere le cose attraverso gli occhi di adulti indignati ma anche di bambini che hanno il diritto di sperare.
    Neanche a me scappare, come suggerimento di principio, sembra la soluzione.
    Ho trovato interessante anche questo articolo sull'argomento.

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  2. Che dire: mio figlio è già partito... Io sono rimasta e ho lottato per anni, per me ma soprattutto per lui e loro: i miei figli. Se esistesse la "sindrome da Don Chisciotte" sarebbe il mio male dell'anima.
    Ciao e complimenti per quello che dici e (vezzo di una vecchia signora amante della scrittura) per come lo dici.

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  3. io non so cosa posso trasmettere ai nostri figli.
    certo è che lasceremo loro in eredità un mondo peggiore di quello che è stato lasciato a noi, da ogni punto di vista.
    e questo mi pesa più di ogni altra cosa.

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  4. Giuste riflessioni, e argomento spinoso. Spero di riuscire a trasmettere ai miei bambini l'idea che valga sempre la pena di provare a costruire e impegnarsi per qualcosa, anche quando sembra difficile. Che abbandonare genera il deserto, il vuoto di un lavoro non fatto che ben descrivi. Capisco anche che la ricerca della strada per valorizzare (in tutti i sensi, anche economicamente, perché si tratta di una questione importante, talvolta di sopravvivenza, per molti giovani italiani) il proprio talento possa portare lontano, scelta spesso sofferta e faticosa. Ma credo sia sempre possibile provare a seminare qualcosa con spirito costruttivo, anziché partire con l'idea di saltare appena in tempo da una nave che affonda.

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  5. bellissimo desian, sono pienamente d'accordo con te e mi è venuta in mente questa poesia :

    AL FIGLIO
    Di C. Lebowski Cavallini

    Stasera ho pensato di insegnarti questo :
    tu ribellati
    qualunque cosa accada :ribellati
    ribellati alle lettere allineate
    ai colori alle cornici introno al foglio
    agli indici nei libri alle immagini nel verso giusto
    agli orli alle cinture ai calzini uguali
    ai bottoni sempre nelle asole
    e alle asole sempre in cerca di bottoni
    ai saponi alle creme ai dentifrici raccomandati
    alla pelle che si rimargina alle cicatrici ai calli ossei
    alle donne ai sentimenti ai patimenti
    al tempo che guarisce tutto
    e al dolore che si lascia guarire
    a me soprattutto e certo

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  6. @mamma in 3D: a proposito dell'articolo che mi hai suggerito punto subito una frase: per il mestiere che faccio sono spesso nelle librerie (direi tutti i giorni...) e capita davvero di frequente che quando si presenta un genitore a comprare un libro di scuola faccia il solito peana su quanto è caro! Poi però 50 euro per la discoteca, la ricarica, il vestitino del povero pargoletto analfabeta ci sono sempre. Ecco, i genitori siamo noi: perché pensiamo che 30 euro spesi per un libro sono buttati?!... E grazie del suggerimento, l'articolo è ottimo anche per il resto che dice.

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  7. @lalla: continuiamo a combattere perché almeno non TUTTI i figli se ne debbano andare. E, credimi, capisco il tuo sentimento di genitore. E benvenuta da queste parti, ricambierò!

    @do minore: certo, nessuno mette in discussione la possibilità di andare a cercare altrove una carriera lavorativa o il dover far fronte a situazioni che nel nostro Paese non sembrano avere sbocchi. A me, anche solo per testardaggine di carattere, piace insistere e poco scappare. Ciao!

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  8. @giardigno: insegniamo loro a pensare che il mondo non è solo quello che possono vedere di fronte ai loro occhi, ma anche quello che possono costruire, giorno dopo giorno con il "lavoro" (qualsiasi esso sia e in qualsiasi posizione) e notte dopo notte con la forza dei loro sogni: non una favola ma la capacità di vedere le cose in maniera non banale. E ribellione, almeno dentro l'anima e anche contro i genitori, se necessario, certo!!!

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  9. non so cosa pensare. io sarei una di quelle che sarebbe all'estero se solo avessi avuto più coraggio e più tenacia. invece alla fines ho scelto di restare qui facendo un altro lavoro agli antipodi di quello che ho studiato. ho messo su famiglia e lavoro vicino a casa nella città dove sono nata. continuo a sentirmi fuori luogo e anche se sono abbastanza soddifatta contonuo a chiedermi se questa è davvero la vita che avrei voluto. domanda inutile a 40 anni con due bambini piccoli. ma non so ancora cosà dirò ai miei figli quando saranno grandi. che forse l'università è meglio farla all'estero, se vogliono. non so. non voglio che restino qui per me. vorrei che fossero felici. e se saranno felici altrove, farò la nonna pendolare. ma mancano ancora minimo 15 anni al momento in cui saranno in grado di "fuggire", quindi vedremo allora.

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  10. @acasadiclara: anch'io penso che non debbano restare in un posto se non per loro stessi. Però penso anche che se all'estero ci sono migliori università, migliori opportunità lavorative, migliori modi di vivere (ma siamo poi sicuri che sia tutto così "migliore" solo altrove? un altro dubbio tra i dubbi...) sia merito del sistema differente rispetto al nostro ma anche delle persone che lo hanno alimentato, lo hanno fatto crescere, hanno lavorato alla sua realizzazione. Ai miei figli non chiederò e non imporrò nulla sulle scelte del loro futuro, però di certo cercherò di insegnargli che la loro presenza e il loro essere nel mondo e la loro felicità stanno anche nel fare le cose dove si trovano e nel farle con l'impegno "giusto"... Ciao!

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  11. Sarete voi quarantenni o giù di lì, così pacati, così "mammi", così aperti al dubbio (che non vi indebolisce ma vi consente, gettate giustamente le certezze assolute, di averne di relative) la
    "linea del Piave" di questo nostro Paese?

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  12. Anch'io non so cosa pensare. A volte penso che "restare per cambiare le cose", come mi hanno insegnato i miei genitori, come tutto sommato cerco di insegnare ai miei figli, sia ormai, oggettivamente, impossibile. Quando un frutto è marcio, puoi aspettare che il nuovo raccolto sia migliore. Ma quando si ammalano anche le radici, cos'altro resta da fare?

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