Dico la verità, senza falsi pudori: queste cose mi sconcertano. E non parlo della morte che è inscritta nel nostro certificato anagrafico o del dolore che, per quanto si possa fare, per fortuna è e resterà sempre invisibile e privato. Non parlo nemmeno delle responsabilità da accertare e punire perché lì arrivano (o dovrebbero arrivare) legge e giustizia.
Quello che mi sconcerta sinceramente sono le foto come questa qui accanto o come quella sulla prima pagina cartacea della Repubblica di oggi, 26 luglio. Quello che mi sconcerta è il fatto che, in pochissimo tempo, i luoghi di questi avvenimenti si trasformino in altari mediatici.
Candele, fiori e cartelli. Tutto in esposizione.
E' come se tutti noi, ormai incapaci di leggere gli eventi sociali che ci accadono e che sfuggono al nostro stesso agire, spossessati della capacità di comprendere i nostri sentimenti, conservassimo in casa già belli e pronti cartelli di dolore (sulla foto di Repubblica campeggia un cartello con su scritto "warum?", perché?). E' come se tenessimo nei cassetti le nostre urla di disperazione, pronti a tirarle fuori alla bisogna, come un abito, come un gesto, come un comportamento.
I nostri "perché", invece di essere interrogativi quotidiani, motore del nostro stare nel mondo, sembrano diventati nenie senza senso. Invece di chiederci in continuazione cosa (ci) accade, aspettiamo una morte, un disastro per trasformarli nel grande spettacolo permanente.
Così come Heysel (lo stadio di Juve-Liverpool), o come tanti altri episodi del genere, sembra di assistere ad una rievocazione storica, al ripetersi coreografico del massacro. Coi sopravvissuti che, protagonisti o vittime del meccanismo non sappiamo, tengono persino conferenze-stampa...
Così basta guardare, in alcune foto, il volto di Irina sull'orlo del pianto per capire forse meglio cosa cerchiamo e chi siamo noi altri in questi spettacoli.
Cosa significhino decine di candele e di mazzi di fiori distesi su un marciapiede: da un lato suppliscono la nostra incapacità di sentire e, prima ancora, di comprendere; dall'altro ci ripropongono ogni volta come una droga il silenzio che ci esplode dentro.
Che ci sbrana.
A me lo sconcerto prende tutte le volte che vedo la gente applaudire al passaggio di una bara... non è più sostenibile il silenzio?
RispondiEliminaAnnalisa
@annalisa: esattamente, applaudiamo perché è uno "spettacolo" e così lo percepiamo... :-(
RispondiEliminada poco ho letto un'intervista a Maria Luisa Busi che raccontava della sua lunga carriera al TG1 e ricordava come la cosa che l'aveva più sconvolta in tanti anni fosse l'impellenza delle mamme dei bambini della scuola di San Giuliano di Puglia di raccontare pubblicamente il loro dolore, quasi che quel dolore non esistesse se fosse rimasto privato
RispondiElimina@amanda: torno a dire, strana trasformazione del dolore in fatto mediatico... E poi è chiaro che un giornalista avrà sempre bisogno di questi accadimenti e allora ho l'impressione che si faccia un po' di confusione su cosa venga prima, il dolore o la sua mercificazione. Il mio è un dubbio, non una risposta...
RispondiEliminaA volte il dolore può avere bisogno di una espressione pubblica, conclamata (penso all'esempio dei genitori di San Giuliano di Puglia) per trovare la giusta dimensione privata. I gesti e i simboli stereotipati li trovo sempre un po' vuoti, invece, anche se capisco che per gli estranei accostarsi al dolore altrui, anche con le migliori intenzioni, possa essere molto difficile. Credo che sarebbe importante lasciare sempre le vittime del dolore libere di vivere e metabolizzare la propria condizione con un periodo di tempo di silenzio, senza trascinarle nel gorgo mediatico, ma lasciandole poi libere di esprimersi, con misura, se lo desiderano. Ma il dolore ha un fascino a cui mezzi di comunicazione e semplici curiosi trovano difficile resistere.
RispondiEliminasarà un modo per vaccinarsi dal dolore ?
RispondiEliminapuò essere, ma temo che non lasci una immunità persistente
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