La salita è un accumulo di passi, un leva-e-metti continuo delle tue suole in vibram. Metro dopo metro ti avvicini a quella meta decisa a colazione tra fette biscottate con marmellata di more e il latte giallo di grasso perché appena munto. E la meta, vista l’ora (il calcolo, quando anche del tutto casuale, torna sempre sul tempo del pranzo), non può essere che un rifugio: uno di quei tavoloni dove la tua passeggiata, lo sforzo immane per cui ti sei trascinato fin qui, si acquieta dentro un piatto di canederli in brodo, di polenta coi finferli, di yogurt bianco coi frutti di bosco. Questo ti basta: che tutto ci sia. La tua sicurezza è quello scambio certo: cibo e magari anche un caffè, alla fine.
La meta agognata ha però un dietro le quinte: basta entrarci, dentro un rifugio, mentre la torma prende d’assalto ogni tavolo, ogni centimetro delle panche di legno per capire cosa ci sia dietro la tua presenza in quel luogo. Vederla, la cucina di un rifugio alpino, è a mio avviso quanto di più vicino ad un alveare in piena attività: li vedi schizzare in ogni dove gli addetti al tuo cibo anzi, piuttosto, li senti perché è tutto un rincorrersi di “attenzione – achtung – permesso” mentre li vedi che ti evitano slalomando come d’inverno tra i paletti. Persino quel minimo di organizzazione rappresentata da una cassa computerizzata (che qualche addetto guarda ancora con malcelata diffidenza…) o dal modo cronologico di disporre le ordinazioni per rispettare il turno di ogni avventore vanno presto in crisi, basta chiedere un caffè al banco e tutto crolla.
Non sono pensati per migliaia di visitatori al giorno, questi luoghi. Non per nulla chi se lo inventò il rapporto uomo-montagna lo vedeva come una lotta (la lotta con l’alpe), un corpo a corpo che è, per antonomasia, individuale. Troppo rumore, persino gli elicotteri si intromettono su un sentiero che appare deserto.
Per questo, secondo me, è così difficile strappare un sorriso sincero, da queste parti. Spesso una certa qual gentilezza di modi fa parte del contratto turistico ma capisci quanta diffidenza (e quanta fatica) ci sia dietro. E non è, badate bene, soltanto una questione di denaro, di gentilezza in cambio di turismo. No, è qualcosa di più profondo, di più significativo.
Intanto, e lo so personalmente, è davvero pesante lavorare e far fatica dove gli altri si divertono. Al sorriso disteso del turista spensierato è difficile contrapporre altrettanto quando sudi e sbuffi per accontentarlo, per fargli godere quella spensieratezza. A volte, invece, quella spensieratezza si accompagna a cafonaggine e pretenziosità e allora è ancora più difficile.
Questa terra è troppo forte per poter essere trasparente nella vita di chi ci è nato. O se ne vanno oppure, se restano, stringono un rapporto intensissimo, e anche un po’ esclusivo, coi loro luoghi. Contemporaneamente sanno che il loro benessere deriva da queste frotte di cittadini culo-pesanti che, col fiato grosso alla prima curva, non potranno mai essere dei veri montanari. Restiamo estranei.
la gente di montagna va conquistata, non si concede facilmente, ti studia, ti annusa, ti assapora, ma quando la fase preliminare l'hai superata li hai dalla tua per sempre. Ho lavorato, senza sapere il tedesco e il dialetto sudtirolese, per due anni all'ospedale di Merano, per una sostituzione di maternità, quindi li conosco gli uomini e le donne delle valli che scendevano solo perchè c'era da farsi visitare all'ospedale, i sorrisi andavano guadagnati, ma quando il mio contratto è scaduto, per questa italiana che nel frattempo aveva imparato solo le basilari frasi di cortesia, hanno raccolto più di cento firme per farmi restare, con i colleghi è rimasto uno splendido rapporto che perdura nel tempo, io in Val Venosta ho lasciato un po' di cuore
RispondiEliminaE' agosto, Desian; un mese fa, era tutta un'altra storia.
RispondiElimina@amanda: lo so! Ho lavorato per qualche anno anch'io fianco a fianco, quotidianamente, con un sudtirolese e ho avuto modo di conoscerne altri: sono persone di una specchiata onestà, umana e intellettuale, e hai ragione quando dici che i loro sorrisi vanno conquistati. Una volta conquistati, però, sono sorrisi per la vita. Per fare chiareza e sgombrare il campo da possibili equivoci: adoro queste terre, ammiro moltissimo non solo la bellezza dei luoghi ma quella dell'organizzazione sociale perfetta che si sono dati, continueremo a venirci in vacanza, amo questi luoghi.
RispondiElimina@laura.ddd: se è per questo, un mese fa era tutta un'altra storia ovunque: a Rimini, a Firenze, sulle Dolomiti. Non è questo il punto, il (mio) punto è riflettere su cosa vuol dire turismo di massa su luoghi così delicati... che peraltro, come dico sopra ad Amanda, noi tutti in famiglia adoriamo! :-)